Io e Erika abbiamo ragionato in modo strutturato sul legame tra emergenze e civic hacking soprattutto grazie a due eventi collegati a due diverse edizioni del Festival della Partecipazione:
L’evento del novembre 2019 che si è tenuto all’Aquila era uno dei tavoli di lavoro all’interno della campagna #sicuriperdavvero, un evento che ActionAid ha riassunto così:
Trasparenza, open data e comunicazione nel ciclo del rischio
Questi sono stati i temi in oggetto nell’ultimo evento del 2019 che si è tenuto a L’Aquila il 23 novembre durante il Festival della Partecipazione. Più di 40 partecipanti, provenienti da diverse parti d’Italia e con diverse expertise – dall’associazionismo alla pubblica amministrazione, dal settore privato agli ordini professionali – si sono confrontati in due tavoli di lavoro diversi (uno sulla prevenzione e uno sull’emergenza/ricostruzione).
Partendo dalle esperienze italiane e dalle buone pratiche, arrivando a delineare indicazioni e raccomandazioni per le politiche pubbliche sull’utilizzo dei dati e sulla corretta informazione.
Questa è la descrizione tratta dalla pagina dell’evento. I risultati di quel lavoro sono visibili nella raccolta di pratiche ed esperienze e nel report finale, curati dallo staff di ActionAid. Erika ed io ci siamo divisi per tutta la durata della giornata di lavoro: lei è andata al tavolo emergenza/ricostruzione, mentre io sono stato su quello della prevenzione. Se volete leggere le sue riflessioni, le trovate in questo post, dove cita anche il numero della newsletter che avevamo dedicato a quell’evento. Non mi soffermerò su quello che avevo portato per il primo giro di tavolo, trovate tutto citato in quel numero della newsletter di #CivicHackingIT.
Mi concentro su alcuni degli elementi emersi da quell’incontro.
Divulgare un concetto al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Non sono mai stato appassionato particolarmente di gestione del rischio idrogeologico, ma devo ammettere che ascoltare idee ed esperienze messe insieme con l’obiettivo di capire come divulgarlo in maniera più ampia è sempre utile. Nel caso del rischio sismico, ho scoperto l’esistenza del servizio Sicuro+: un modo veloce per sapere il rischio sismico di un particolare comune. Anche se è stato rilasciato al pubblico verso la fine del 2019, al tavolo se ne era parlato. In ottica di prevenzione, sapere qual è il rischio della zona dove ci si trova è sicuramente un primo passo per aumentare la consapevolezza. Sono convinto che si tratti di un lavoro utile, da recuperare anche per altri temi simili.
A proposito di rischio idrogeologico e crisi climatica, nel corso delle discussioni del tavolo ho scoperto che esiste una strategia comunale per rispondere ai cambiamenti climatici. Mi ha colpito, specie se si pensa alla scala globale del fenomeno e a quanto possa impattare un’azione locale. È interessante che ci sia un’azione locale ben definita, che immagino sia collegata ad azioni più ad alto livello. Documentandomi un attimo, ho scoperto che c’è un problema di governance: dovrebbe esserci un piano a livello nazionale, che si integra e assicura coerenza nella gestione delle singole azioni a seconda dei livelli amministrativi coinvolti, ma, ad oggi, non è ancora stato rilasciato nella sua forma definitiva. Ci sono delle linee guida (datate gennaio 2020), ma il piano vero e proprio non è ancora stato rilasciato (ne ha scritto Emanuele Bompan in un approfondimento per Il Fatto Quotidiano). Tutto questo mi ricorda molto il delirio che abbiamo scoperto negli ultimi mesi attorno al piano pandemico nazionale, che era stato aggiornato l’ultima volta nel 2006 (e avrebbe dovuto esserlo).
Serve fare cultura. Ragionare sulla prevenzione implica scontrarsi con il tema culturale. Cultura del dato prima di tutto (per capire il livello del rischio sismico, per capire cosa significa davvero una probabilità, etc..). Ci sono informazioni e conoscenze che dovrebbero essere connaturate all’essere cittadini consapevoli. Serve capire quali sono le modalità migliori da usare: magari un percorso di formazione minimo alla cittadinanza, un servizio civile aumentato per gli adulti, un ripensamento dell’educazione civica che riparta dalla scuola e si sposti ben oltre la fine del percorso scolastico. È un tema complesso dalle mille sfaccettature, ma fondamentale.
C’è poca chiarezza negli attori e nei ruoli che ricoprono nella società, viviamo sul passato. È necessario un ripensamento dei corpi intermedi (che sono strutturati per il mondo del secolo scorso, non per quello attuale). Ci sono diverse sfide sul piatto, tra cui spicca come qualificare tutte quelle comunità informali che agiscono tramite le potenzialità di Internet e che hanno bisogno di diventare rilevanti. L’altra sfida è dare la giusta rilevanza a tutte quelle informazioni e a tutti quei dati che vengono creati grazie al lavoro di intelligenze collettive informali, che lavorano grazie alla Rete. Non è necessario che ci siano forme strutturate (come associazioni o altro), possono essere singoli cittadini intermediati attraverso la tecnologia e Internet a farsi sentire e a dare una mano. Vanno previste nuove forme di ingaggio e di coinvolgimento, il mondo è cambiato. Nel report finale dei lavori si parla di “mancanza di criteri di validazione dei dati crowdsourcing”, ma non si tratta solo di questo. Significa anche ridare un ruolo collaborativo al singolo cittadino o alla comunità nei confronti dell’istituzione e ripensare la modalità di partecipazione della cittadinanza, fino ad abilitare i livelli di collaborazione e di empowerment (sono i livelli più alti secondo la scala della partecipazione di IAP2).
Eccessiva frammentazione degli attori della società civile. Nel corso della discussione ho sentito diverse volte riecheggiare il tema della sicurezza delle scuole, ovviamente dal punto di vista sismico. A che punto sono i lavori per la loro messa in sicurezza? Come si può conoscere lo stato dell’edificio dove si mandano i propri figli per buona parte della settimana? Sono solo alcune delle domande a cui tutti cercano di dare una risposta, ognuno con le proprie modalità. È un ambito mi è particolarmente caro, visto che è stato oggetto di molte attività collegate alle prime inchieste di data journalism e di richiesta di Open Data nel corso degli ultimi dieci anni. È un tema sentito, ci sono molte iniziative attive su questo fronte, ma spesso non si conoscono e non riescono a coordinarsi tra loro.
Questa frammentazione è un problema comune a tantissime iniziative che nascono dalla società civile, perché se ci fosse maggior contatto tra i progetti che stanno affrontando lo stesso ambito, l’impatto delle azioni che si possono mettere in campo sarebbe molto più alto.
Lo scorso 18 ottobre Erika ed io abbiamo partecipato al Festival della Partecipazione all’interno di un filone di interventi dedicati ad approfondire il civic hacking in emergenza (questo era il programma della giornata). Con 20 minuti a disposizione abbiamo scelto di dividerci in maniera diversa dal solito: io avrei presentato il civic hacking dal punto di vista generale, Erika avrebbe fatto un approfondimento sull’uso dei dati in emergenza, sfruttando esempi reali. Ho provato sulla mia pelle quanto sia sfidante divulgare un tema da addetti ai lavori in un tempo assai limitato (10 minuti). Trovate il video completo della sessione mattutina a questo link, se avete voglia di ascoltarlo (attenzione, la sessione dura 1h30min).
Il programma della giornata era diviso in due momenti: la mattina c’era il panel a cui abbiamo partecipato (quello delle 11.30), il pomeriggio c’è stato il momento del workshop, in cui rispondere in maniera aggregata a diverse domande guida, tra le quali: “quali strumenti, come coinvolgere comunità, attivisti e istituzioni, come richiedere, produrre e diffondere dati”? Noi non abbiamo partecipato al workshop, si può comunque recuperare tutta la discussione a questo link, se vi interessa.
Ecco quello che ho raccontato, una slide alla volta.
Oggi Erika ed io vi daremo alcuni spunti per capire cosa diamine è il civic hacking, i suoi legami con quello che chiamiamo ‘attivismo’ e come tutto questo abbia a che fare con l’emergenza. Io mi concentrerò nel delineare i confini al perimetro più ampio, così ci capiamo meglio, mentre Erika si focalizzerà sul tema dei dati, anche raccontando alcune esperienze di civic hacking e civic tech sparse per il mondo.
Siamo in un’emergenza. Ci possiamo far prendere dal panico o dallo sconforto, ma possiamo anche essere sopraffatti da un’altra emozione: l’esigenza di fare qualcosa, qualcosa che abbia senso, che dia una direzione, che ci faccia sentire utili. L’emergenza ci pone una sfida, ci obbliga ad uscire dalla nostra zona di comfort, perché rompe gli equilibri esistenti. L’emergenza è il contesto in cui vediamo delle questioni da risolvere, dove possiamo decidere di dare una mano. Tra tutti i problemi che un’emergenza porta alla luce, si tratta di capire quale scegliere , quale ci tocca di più.
Perché l’emergenza non ci blocca? Perché c’è un atteggiamento di base, chiamiamolo pure un modo di vedersi nel mondo, una sorta di cultura condivisa. Siamo attivisti (cos’è l’attivismo? Ne avevamo parlato anche in un numero della newsletter di qualche tempo fa). Vogliamo essere parte attiva di quello che accade attorno a noi, non vogliamo essere solo spettatori. Il digitale fa parte del nostro mondo ormai da diverso tempo, quindi è naturale parlare di attivismo digitale. Il civic hacking è una delle forme più recenti di quello che è l’attivismo digitale e possiamo pensarlo come ad un suo sotto-insieme.
Il civic hacking è l’attivismo che sfrutta le potenzialità del vivere nel Ventunesimo Secolo. Sfatiamo un mito:
L’attivismo nasce dal basso e aggrega persone e comunità sensibili ad un tema ben preciso. Il digitale aumenta le possibilità a nostra disposizione, dando forza a comunità informali che possono coordinarsi senza una struttura formale. Il civic hacking è una delle massime espressioni di questa sinergia. Singoli e comunità che si auto-organizzano con gli strumenti messi a disposizione dal Ventunesimo Secolo per affrontare un problema concreto.
Tra l’altro, non è proprio una cosa dell’altro ieri: una delle prime citazioni del termine ‘civic hacking’ è del 2003, in Gran Bretagna. Sono passati quasi 20 anni ormai.
Se fino adesso ci siamo concentrati al contesto in cui si muove il civic hacking, ora capiamo davvero di cosa si tratta partendo dal concentrarci sulle due parole: ‘civic’ e ‘hacking’. Hacking, hacker. Termini che associamo a geni informatici che bucano sistemi e fanno grossi danni: questa associazione è uno dei più grandi errori che si possano fare. La realtà è ben diversa, prima di tutto perché un hacker non è tradizionalmente un criminale informatico (quello si chiama cracker). L’hacking è un atteggiamento, prima che un insieme di capacità. È l’attitudine a risolvere problemi uscendo dalla propria zona di confort senza dover chiedere il permesso a nessuno e mettendo in discussione qualsiasi cosa. È qualcosa che si fa cercando supporto nelle comunità di persone affini, condividendo quello che si sa e quello che si fa, per quanto sia incompleto o soltanto abbozzato.
Si tratta di un approccio culturale che trova radici nel mitico MIT di Boston e che è la base del modo di lavorare dei movimenti del software libero e dell’Open Source. L’attitudine hacker è una cornice culturale, non è soltanto roba da informatici.
Tutti possono essere degli hacker: anzi, tutti lo dovrebbero essere.
L’immagine di sfondo di questa slide è lo schema del progetto civico che ha adattato delle maschere da sub di Decathlon da 19€ per trasformarle in maschere adatte alla ventilazione respiratoria. È stato fatto grazie alla realizzazione di un connettore specifico, realizzato con stampanti 3D. L’intero progetto è stato condiviso in modalità open nel pieno della crisi in mancanza di dotazioni sanitarie. Ne avevamo parlato in un numero della newsletter lo scorso aprile, grazie al lavoro di Covid19italia.help.
Ora che il concetto di hacking dovrebbe essere più chiaro, passiamo alla parola ‘civic’, civico. Civico significa qualcosa che è a beneficio di tutta la città e di tutti i suoi cittadini, in altri termini se facciamo qualcosa di civico, vuol dire che stiamo facendo qualcosa per il bene della collettività. Ci stiamo impegnando a risolvere un problema che ci riguarda tutti. Significa rendersi conto che se è di tutti, vuol dire che è anche nostro, non che è di nessuno.
Cito un estratto da un numero della newsletter dove abbiamo approfondito questo concetto:
[…] la Treccani ci informa che civico significa “Che è proprio dei cittadini, in quanto appartengono a uno stato (cfr. civile)” oppure che si riferisce a qualcosa che è “Di città, comunale, municipale”. Sembra quasi la stessa cosa, no? Il dizionario etimologico però racconta un’altra cosa. La radice è complicata, ma “a parola vale residente, accasato, che ha stabile dimora in paese, in opposizione a straniero, che viene di fuori per tornarsene, al nomade che girovaga, all’incola o inquilinus abitante non fisso di un luogo non proprio”. Civico ha a che fare con le radici, con l’essere parte di un territorio.
Una delle definizioni di civic hacking che più ci piace è questa: fare civic hacking significa trovare soluzioni creative a problemi concreti utilizzando anche le tecnologie. È un fenomeno dinamico, che cambia pelle ed evolve nel corso degli anni. Studiandolo per diverso tempo, ci siamo resi conto che il modo migliore per spiegarne la natura è con una serie di ingredienti.
Ogni iniziativa di civic hacking ha la sua ricetta, ogni iniziativa dosa in maniera diversa questi ingredienti. Attenzione: non esiste la ricetta perfetta, quella che si adatta a tutti i contesti e a tutti i problemi. Non c’è la pallottola d’argento. Gli ingredienti sono questi:
La seconda parte della presentazione, la trovate in questo approfondimento di Erika.
L’immagine della cover del post è A cat on the rubble di Alessandro Giangiulio distribuita con licenza CC BY.
]]>Abbiamo capito che non era più uno sforzo sostenibile.
In questo post vi racconto i retroscena di questa decisione dal mio punto di osservazione: occhio, #CivicHackingIT è un progetto a quattro mani, quindi il mio post è una delle due facce della stessa moneta, l’altra la scoprirete leggendo anche quello di Erika.
Il progetto #CivicHackingIT non finisce, se vi fosse venuto il dubbio. Infatti,
Ora parliamo dei motivi dietro la chiusura della newsletter.
La pandemia ha cambiato un po’ le carte in tavola per tutti, è successo anche per noi. È uno dei motivi dietro ai pochi numeri inviati della newsletter nel corso del 2020 (esattamente 17, da gennaio a luglio). Pochi, se consideriamo che siamo alla quarantesima settimana dell’anno (quella dal 28/09 al 4/10).
Ancora meno se pensiamo che gli ultimi tre numeri della newsletter (maggio, giugno e luglio) sono stati una sperimentazione rispetto al solito formato settimanale. Erano numeri mensili molto più lunghi e dettagliati rispetto al format settimanale, con un numero di link più elevato. Per leggerli ci voleva più tempo, ma ci sono sembrati il modo migliore per comunicare quello che stavamo osservando nel panorama del civic hacking ai tempi della pandemia. In un certo senso, era più semplice comunicare la visione di insieme in un pezzo unico mensile rispetto a singoli temi spezzati lungo le settimane. Non so se sono davvero piaciuti a chi li ha letti: il cambiamento non era stato previsto e non lo abbiamo anticipato, ma era quello che ci sentivamo di fare.
Dopo aver lasciato le redini per qualche settimana e cambiato la struttura della newsletter, ci siamo ritrovati a ragionare sui perché dietro alle nostre comunicazioni settimanali. Così, abbiamo colto l’opportunità per riflettere sulla natura stessa della newsletter.
Nel post del luglio 2017 in cui annunciavo il progetto, la newsletter la descrivevo così:
[…] sabato 8/7 lanceremo la newsletter settimanale #CivicHackingIT. Digital Update è la nostra newsletter preferita, quella che apriamo più spesso. Per #CivicHackingIT vogliamo fare qualcosa di simile e raccogliere i link più interessanti sull’argomento civic hacking in italiano (con occasionali spunti in inglese) più alcuni aggiornamenti sul progetto del libro. Sarà un modo per condividere tutto il materiale che riterremo interessante.
Uno dei motivi principali dietro al lancio della newsletter era la consapevolezza che non si raccontava quello che accadeva in Italia attorno al civic hacking e che non ci fosse abbastanza riflessione sul tema:
[…] ci siamo resi conto che in italiano non c’è nulla che approfondisca specificatamente il tema del civic hacking, anche se in Italia ci sono molti progetti e molte storie che meritano di essere conosciute e raccontate e che sono civic hacking per davvero. Raccontarle potrebbe stimolare una riflessione collettiva, specie per farle diventare delle buone pratiche.
C’è un non detto in quel post del 2017: avevo convinto Erika che sarebbe stato bello iniziare a condividere idee e spunti nella fase di scrittura del libro grazie alla newsletter. L’entusiasmo del sottoscritto aveva travolto qualsiasi riflessione sulla pianificazione e sui tempi di gestione di un progetto simile. Ora ve lo posso dire: se volete scrivere un libro, non è il caso di far partire un progetto editoriale come una newsletter settimanale non appena avete soltanto deciso l’indice del libro, ma senza averlo realmente scritto. Soprattutto se volete continuare ad avere una vita :-). Troppe cose su cui lavorare in contemporanea nello stesso momento, ancora di più se nel lavoro quotidiano dovete fare altro.
In ogni caso, Erika ed io ci siamo messi al lavoro e siamo riusciti a gestire una newsletter settimanale per tre anni. Chi l’avrebbe mai detto?
Se volete vedere come ci siamo organizzati nel gestirla, Erika l’aveva sintetizzato benissimo in questo post, il quarto della serie dove raccontavamo la gestione del progetto.
Pensavamo alla newsletter come una forma di ingaggio con il pubblico interessato a scoprire più cose sul civic hacking, era un modo per mantenere la conversazione tra noi due aperta anche a chi volesse dirci qualcosa su quello a cui stava lavorando, mentre noi proseguivamo con la stesura del libro. La newsletter, nella forma in cui l’abbiamo pensata, è sempre stata qualcosa con un inizio ed una fine ben precise.
La fase di scrittura del libro e del lavoro di questa newsletter doveva vedere la conclusione diverso tempo fa, almeno rispetto a quello che pensavamo agli inizi del progetto. L’aver allungato così tanto le tempistiche iniziali ha avuto delle conseguenze importanti. Una è il cambiamento del contesto sociale e l’altra è la doverosa riflessione sulla sostenibilità di un simile progetto.
L’idea dietro #CivicHackingIT inizia a farsi strada nel 2016 e vede il lancio pubblico nel giugno 2017. Era un periodo dove il termine “civic hacking” veniva usato spesso in Italia, anche se con significati non del tutto coerenti. È quello che avevo iniziato a documentare nel post Civic hacking: come se ne parla negli anni e che avevo approfondito ancor di più nel post successivo Civic hacking: toc, toc è permesso?. Più approfondivamo e più abbiamo imparato cose che davamo per scontato. Era l’occasione cercata per imparare molti degli elementi alla base del funzionamento della democrazia in cui viviamo. Qualcuno potrebbe pure definirla una specie di educazione civica aggiornata al Ventunesimo secolo. Mentre noi capivamo meglio la natura della democrazia italiana in funzione della relazione che esiste tra democrazia e civic hacking, la democrazia in cui vivevamo cambiava. In peggio. Estremizzandosi. Più leggevamo approfondimenti, più la rabbia aumentava. Anzi, non solo quella. Pure molta frustrazione. Mi sentivo impotente in alcuni momenti. Così, piano piano, abbiamo sfruttato a nostro vantaggio anche la newsletter per provare a dare un contributo, magari piccolo, per riflettere e rilanciare temi che abbiamo ritenuto fondanti sia per il presente che per il futuro. Ma il civic hacking è un’animaletto sfuggente, lo stavamo scoprendo sempre di più. Riesce a dare il suo meglio quando la democrazia funziona bene: se si mette in pericolo la base allora si trasforma, diventa qualcosa di diverso. Il civic hacker ha il dovere di trasformarsi, ancora di più nella sua relazione con le istituzioni e con il resto della società civile. In alcuni momenti, lo ammetto, ho avuto delle difficoltà nello scegliere le priorità: dare il tempo per continuare il progetto #CivicHackingIT o tornare parte attiva, togliendo le vesti dell’osservatore e passare all’azione? Questa è ancora oggi la mia più grande debolezza. In un certo senso, è anche la spinta per terminare la fase che ci siamo immaginati all’inizio, quella del libro. Farlo oggi, in piena pandemia dove servirebbe rilanciare in maniera massiccia anche la forza della società civile, è ancora più difficile. Anche perché le esperienze stesse di civic hacking si sono via via sempre più polarizzate e scovarle è sempre più arduo, specie nella scala italiana.
Sappiamo che la newsletter come strumento sta ritrovando una sua centralità nel panorama mediatico: ne avevamo parlato nel luglio 2019 quando abbiamo citato una delle mie newsletter preferite, quella di Carola Frediani — Guerre di Rete. Tutto dipende dagli obiettivi che ci si pone e dal rapporto tra investimento e ritorni sul progetto. Oggi l’archivio della newsletter ha una sua storia (con oltre 120 numeri inviati) e mi sembra che abbia raggiunto l’obiettivo iniziale che ci eravamo posti: quello di aggregare sotto un unico cappello molti dei temi vicini al civic hacking, facendo emergere maggiormente il contesto italiano. Una base esiste.
Di sostenibilità parlerà maggiormente Erika, io metto sul piatto alcune cose.
La sostenibilità passa da una corretta percezione del valore aggiunto di quello che si sta creando. Nel lancio del progetto #CivicHackingIT ho scritto:
Io ed Erika stiamo scrivendo un libro a quattro mani, dal titolo “Civic hacking: comunità informali, prototipi e Open Data“. Io con il cappello da tecnico, un passato strano, denso di tecnologia, comunicazione e attivismo; Erika laureata in filosofia e profonda conoscitrice delle scienze umanistiche che sopporta uno come me, anche nella vita […]
Non sono righe di testo tanto per riempire lo spazio. Da solo non mi sarei mai e poi mai buttato in un progetto editoriale di questa portata. Non è la mia zona di confort, anzi. Unendo le competenze e l’esperienza di Erika e del sottoscritto, ho sempre pensato potesse uscire qualcosa di utile. Grazie alla sinergia di entrambi, un lavoro alla pari. Sfidante perché portato avanti non solo che da due persone di genere diverso, ma anche da due persone che sono una coppia, che sono marito e moglie. Ho pensato che fosse una sfida in grado di superare vecchi stereotipi, ma non è stato sempre così. La questione di genere è spesso stata oggetto di discussioni interne e il pregiudizio sulla competenza ancor di più. Persone che, senza farci troppo caso, sminuivano il ruolo di uno o dell’altro, quando noi cercavamo sempre di porci portando il valore aggiunto condiviso dalla presenza di entrambi. Ripeto qualcosa che ho già detto più e più volte: uno dei più grando errori che si possono fare è quello di pensare al civic hacking solo come a qualcosa di fortemente connesso alla tecnologia e all’informatica. Lo è in molti casi, ma la sua natura ha più a che fare con la filosofia che con la tecnologia. È più importante porsi le domande giuste che trovare soluzioni tecniche all’apparenza ideali. Hackerare la società è qualcosa che vorrei fare cercando aiuto nella filosofia, non nella tecnologia, specialmente per definire meglio quello che voglio fare.
Eppure molte delle energie che potevamo dare al progetto in diverse occasioni le abbiamo dovute concentrare a chiarire i rispettivi ruoli verso l’esterno.
L’idea iniziale dietro alla newsletter era che fosse utile a creare una piccola comunità di interessati al tema del civic hacking e darci la possibilità di condividere quegli spunti che scoprivano nel corso della stesura del libro. Era un investimento per poter posizionare meglio l’oggetto libro, quando fosse stato pronto. Poi, però, i tempi si sono allungati e abbiamo ripensato la newsletter un po’ come un progetto con una vita propria, rimettendo mano anche al sito. Quello che ci ha reso orgogliosi è che la newsletter stava andando pure bene: i tassi di apertura e i tassi di click erano assolutamente buoni, avevamo diverse interazioni con persone che non conoscevamo ma interessate all’argomento, che ci scrivevano commentando quello che era arrivato nelle loro caselle di posta. Pochissimi si cancellavano dalla lista. Lo sforzo, però, era notevole.
Io ero quello che aveva più difficoltà: potevo dedicarmi al progetto #CivicHackingIT nel tempo libero, quindi non era facile coniugare tutto assieme, specie quando volevo approfondire certe fasi di scrittura del libro dove dovevo documentarmi. La newsletter, con la sua cadenza settimanale, imponeva attenzione costante, anche se per il 90% è sempre stata sulle spalle di Erika. Così, abbiamo inserito il riferimento alle donazioni su PayPal, per vedere cosa succedeva. Abbiamo ricevuto diverse donazioni, in effetti. Ma nulla che potesse coprire il tempo speso per aggiornare il calendario editoriale, trovare delle fonti e amalgamare il tutto in tempo con la cadenza prevista di uscita. Così, in questo pazzo 2020, ci siamo guardati un po’ più in giro per capire come funzionava Patreon o come si poteva immaginare una campagna di crowdfunding attorno al progetto editoriale di una newsletter sul civic hacking in Italia. O ancora se la cadenza mensile potesse funzionare meglio, con un’elaborazione del contenuto più profonda. La risposta che abbiamo trovato è che lo stop fosse necessario. L’ambito del civic hacking è una micro-nicchia informativa: c’è davvero bisogno di qualcosa simile ad una newsletter che arriva con una cadenza regolare per parlarne? Il contesto ce lo permette?
Ci piacerebbe sapere cosa vi è parso della newsletter di questi anni, almeno per chi si è trovato a leggerla. Se vorrete dircelo, ne saremo felici. Oltre che contattarci in maniera diretta, potete anche usare l’hashtag #CivicHackingIT per condividere le vostre impressioni. Chissà cosa potrebbe riservarci il futuro dopo la chiusura del libro: di sicuro, partiremo da quello che ci direte.
L’immagine della cover del post è Baloon ride over Calistoga di Mot the barber distribuita con licenza CC BY.
]]>Non voglio lamentarmi per il gusto di farlo: ho preferito far evolvere la fase di frustrazione e di rabbia per cercare un filo conduttore che mi aiutasse a fare un po’ di ordine sulle cose da fare per migliorare la situazione. Per organizzare i miei pensieri, mi sono liberamente ispirato alla strategia tipica che troviamo nei progetti di civic hacking:
Ecco a cosa sono arrivato:
1 - Problema: quale governo aperto esiste in Italia?
A. Quanti sono i posti letto di terapia intensiva a livello nazionale?B. Chi sta davvero prendendo le decisioni e su che basi?
2 - Cosa possiamo fare di meglio?
A Lavorare sulla cultura della collaborazioneB. Dare evidenza costruttiva di un comportamento sbagliato
Questo è il problema che mi sono posto da qualche settimana: esiste davvero una forma di “Open Government” in Italia al di là dei comunicati stampa del singolo Ministero e dei convegni che si fanno ormai da quasi dieci anni su questo tema?
Dopo le prime settimane di marzo, in cui ho sospeso il giudizio, sono stato costantemente deluso dalle iniziative governative e dalle modalità che venivano adottate per la gestione dell’emergenza.
La fiducia che abbiamo dovuto dare ai nostri rappresentanti in una fase in cui ci è stato richiesto di ridurre le nostre libertà individuali è stata davvero molta e lo sarà ancora di più nei prossimi mesi. Se in una prima fase sono stato accogliente, successivamente alcune cose mi hanno fatto letteralmente saltare i nervi.
Una delle tante questioni sul piatto che hanno catturato la mia attenzione era questa: qual è la capacità massima di gestione delle terapie intensive in tutta Italia? Se mi ammalo e ho bisogno di essere ricoverato in terapia intensiva, vorrei sapere se il medico che mi cura deve arrivare all’estremo di dover scegliere chi salvare tra i malati per mancanza di posti sufficienti a curare tutti.
Il Ministero della Salute ha una sezione sugli Open Data da alcuni anni: tra i dati che mette a disposizione, c’è un dataset sui posti letto:
Si tratta di un file CSV di oltre centomila righe (il totale si vede in basso a destra dell’immagine che mostra il file aperto con VisiData): l’ultimo dato disponibile è relativo all’anno 2018.
Strano, però. I metadati del dataset sono stati modificati per visualizzare un aggiornamento (fittizio?) al 31/12/2019, che però non c’è, visto che i dati sono fermi al 31/12/2018.
Tra l’altro, il Ministero della Salute non rientra tra le fonti dei dati che sono presenti nel portale dati.gov.it. Se cerco i posti letto all’interno del portale dati.gov.it non trovo il dato con copertura nazionale gestito dal Ministero della Salute, ma solo qualche dato a macchia di leopardo di altri enti. Quale altro modo abbiamo per ricavare un dato aggiornato sui posti letto? Anche concedendo che i posti in terapia intensiva non cambiano di anno in anno, durante una pandemia cambiano: si aggiungono strutture temporanee e posti letti dove prima non c’erano. Quindi dove sono segnati questi numeri?
L’unica fonte che ho trovato aggiornata è una fonte costruita dal basso e in maniera collettiva: un lavoro di raccolta manuale dei numeri che emergevano dagli aggiornamenti contenuti nei comunicati stampa delle singole Regioni. Un’iniziativa lodevole di Matteo Villa (ricercatore dell’ISPI), che ha sempre fornito importanti aggiornamenti dal suo canale Twitter. Questo è il foglio elettronico con i dati:
Se guardiamo la riga 26, scopriamo che la fonte primaria è il dato del 2018 fornito dal Ministero della Salute di cui parlavo qui sopra. Evidente che sia una fonte troppo datata, specie rispetto alla necessità di conoscere il dato reale in questa fase di emergenza. Perché non è stato tenuto aggiornato il dato direttamente dal titolare (Ministero della Salute), visto che era già un flusso che avrebbe dovuto essere operativo? Perché ancora oggi non è stato aggiornato? Se l’Open Data non è trattato alla pari di un servizio infrastrutturale, allora non è Open Data (non risponde a tutti i requisiti della definizione e, nella pratica, diventa un dato utile soltanto alle analisi storiche). Il rischio di finire nell’open-washing è alto.
A tutt’oggi, il dato più aggiornato che troviamo nelle fonti istituzionali è annidato nelle tabelle dei report in PDF pubblicate dall’Istituto Superiore della Sanità (ISS), a quanto ho potuto vedere.
dalla relazione tecnica della fase 2, il 50% dei posti semi intensivi sono upgrabili a posti intensivi. pic.twitter.com/qespj75PLf
— luca (@heartallert) May 21, 2020
Avere il dato aggiornato aiuterebbe a ridurre le notizie false attorno al complesso tema della gestione della sanità pubblica: approfondimenti come quello di Open sarebbero molto più semplici da fare.
Sui dati, c’è tutto il tema di quelli necessari a capire come sta andando davvero la Fase 2, ora che entriamo nella Fase 3: ci sono questi dati? No, c’è il caos. Ritardi e omissioni difficili da spiegare. Scoprire che le Regioni giocano un po’ sui dati e che nella Lombardia ci sono dei vuoti pazzeschi di trasparenza e di dati, meriterebbe un approfondimento a parte, che lascio alle testate giornalistiche come Altreconomia (La Regione dei funamboli: scarsa trasparenza, alto rischio) e Il Post (La Regione Lombardia e i dati sull’epidemia). Ovviamente, non sono esaustivo con questi esempi: cito anche stranissimi cambiamenti nei dati inviati dalla Provincia Autonoma di Trento.
Non ce la caviamo meglio nemmeno con le richieste di accesso ai dati: si ricevono rifiuti alle richieste che hanno dell’incredibile. Qui sotto la risposta della Regione Piemonte di qualche giorno fa (ne avevamo parlato anche nell’ultima newsletter di #CivicHackingIT):
Il Responsabile anticorruzione e per la trasparenza della Regione Piemonte respinge l’istanza di riesame, confermando il rifiuto all’accesso civico ai dati dei contagiati, divisi per comune, con cui è generata la mappa https://t.co/oV2sniM0z4.#FOIA #opendata
— Enrico Ferraris (@ebobferraris) May 29, 2020
1/ https://t.co/BWyOpTO5J1
La fondazione openpolis ha fatto un lavoro immane in questi mesi (e continua a farlo), proprio per farci capire la gestione organizzativa dell’emergenza e i problemi che ci pone davanti. In una fase in cui si riducono diritti e vengono prese decisioni tanto importanti, un Paese consapevole delle dinamiche di un governo aperto dovrebbe sfruttarle a suo vantaggio, giusto? No. Fa esattamente il contrario, perché toglie legittimità agli stessi organi democratici, come a quello del Parlamento.
Quello che lascia perplessi è il numero zero sui verbali che sono stati pubblicati online da parte dei diversi comitati e delle ennemila task-force create per gestire al meglio le decisioni nelle diverse fasi della crisi. Per chi si ricorda del termine “accountability”, uno dei pilastri dell’Open Government, è grottesco ritrovarsi in una realtà che si muove in maniera del tutto opaca.
Aggiungo: a chi ha voluto Colao e la task force, con energie e risorse che andranno sprecate, sarà chiesto conto delle proprie scelte? Chiunque proseguirà con i proclami senza mai risponderne, anche a livello di credibilità personale, finché la gente avrà “memoria da pesci rossi” https://t.co/C3Jsa1qRuN
— Vitalba Azzollini (@vitalbaa) June 4, 2020
Come possiamo coniugare l’adozione delle pratiche dell’Open Government con la riduzione delle libertà e la crisi dei meccanismi che regolano la nostra democrazia?
Questa incoerenza non è un problema solo italiano, ovviamente:
All this #opengovernment flying around, but I could find only 3 countries that publish government advisory groups minutes on #covid19 online - Ireland, New Zealand and Scotland. Am I missing something?
— Mor Rubinstein (@Morchickit) May 24, 2020
Anzi, in alcuni casi la situazione sta pure peggiorando:
Not only are governments holding back what data they have https://t.co/aX6QmMMTao, they are now being told that they don't have to collect it to give an accurate picture. #opengov https://t.co/fqoL3iQrTC
— Miranda Spivack (@mirandareporter) May 24, 2020
Feels like some of the good #opengov work from the #18F posse slowly degrades, as the OGs slowly disperse to other gov'ts or bigtech Death Stars.
— Jamie Clark #BLM (@JamieXML) June 6, 2020
Shouldn't be that way. Open code base, and Federal open data had pretty strong bipartisan support.
HT @gbinal @konklone @wslack https://t.co/o8PNyR3SEF
So che ci sono piccoli tentativi di sperimentazione istituzionale relativi alle pratiche di Open Government: penso alla squadra dietro open.gov.it che segue il filone relativo alle attività dell’Open Government Partnership e al Dipartimento per la Trasformazione Digitale (parte dell’ex Team per la Trasformazione Digitale). Il problema principale è che sono filoni fortemente sconnessi da tutto il resto delle priorità e, spesso, pure tra loro. Lo sappiamo: il problema della governance non si può risolvere dall’esterno come società civile, non è qualcosa in cui avremo mai impatto. Possiamo creare delle evidenze che aiutino qualcuno all’interno della PA ad attivare quel cambiamento verso pratiche Open altrimenti difficili da attuare.
Lo stiamo già facendo: c’è la bella storia sulla pubblicazione dei dati giornalieri sull’andamento dell’epidemia in Italia in un repository GitHub da parte della Protezione Civile. Un ottimo esempio che rimane isolato, purtroppo (anche se è stato citato anche all’estero) e che stride moltissimo con i rifiuti ricevuti sulle richieste di accesso ai dati di mortalità a livello comunale, ad esempio.
A questo punto, ho pensato di approfondire di più la natura del problema e ho individuato tre elementi:
Vale la pena soffermarsi sul primo elemento: c’è anche un perché, non è una scelta esplicita. Mi sono venute in mente alcune parole di Stefano Quintarelli (sono tratte da questa lezione - Cosa significa diventare umani digitali? - esattamente dal terzo minuto e venti secondi):
[…] mi sono reso conto che la categoria degli informatici è estremamente sotto rappresentata nei luoghi decisionali rispetto alla rilevanza che l’informatica ha nella società. Detto in altri termini, in Parlamento la metà sono avvocati e gli informatici, tra Camera e Senato, che sono malcontato un migliaio di persone, nella scorsa legislatura eravamo in quattro.
Questo fa capire la dimensione del problema: totale inconsapevolezza delle opportunità a disposizione. Se questa è la premessa relativa alla classe politica della legislatura che c’era tra il 2013 e il 2018, allora si spiegano molte cose. Mi spiego molto meglio la fortissima attenzione che è sempre esistita tra Open Government e trasparenza, molto meno tra Open Government e collaborazione. Marina Bassi ne parlava anche nel febbraio 2019:
Il 2018 è stato un anno contraddittorio per l’Italia in tema di governo aperto, a seconda del punto di vista dal quale lo si guarda. Da un lato, in termini di Open Government inteso nell’accezione di governo trasparente, è stato palcoscenico di traguardi raggiunti, o quanto meno di passi in avanti (si pensi al posizionamento dell’Italia sul tema Open Data nel DESI 2018, o nell’Open Data Maturity Report europeo); dall’altra parte, non ci siamo sulla visione di governance che l’apertura delle istituzioni dovrebbe concorrere a creare (lo leggiamo anche nella sezione II dell’Indagine sul livello di maturità degli Open Data in Italia e dell’applicazione della direttiva PSI, a cura di AgID). Trasparenza sì, collaborazione non ancora.
Forse, non è soltanto colpa delle nostre istituzioni e del governo, anzi. È più complicato di così. C’è qualche problema anche nella declinazione stessa di Open Government. Mi è capitato di leggere una buona parte di questa pubblicazione del 2011: “Implementing Open Government: Exploring the Ideological Links between Open Government and the Free and Open Source Software Movement”. Una lettura davvero interessante, dove si parla delle ambiguità insite nel termine ‘Open Government’: chi vede molto l’accento sul concetto di aperto come trasparente, chi invece di Open nel senso dei principi di collaborazione tra pari dietro ai movimenti del Free Software e dell’Open Source. Se pensiamo al contesto italiano, è naturale che non si comprenda molto l’aspetto di collaborazione, vista la mancanza di cultura digitale nei luoghi decisionali che dovrebbero incentivare l’implementazione stessa del governo aperto. Questa incomprensione di fondo ha creato delle conseguenze importanti: ci sono obiettivi e strumenti politici diversi in relazione alla trasparenza, visto che la trasparenza è spesso un obiettivo intrinseco della buona democrazia. Ne possiamo immaginare altri, se la trasparenza fosse interpretata come un fattore che abilita una migliore collaborazione e non come valore fine a se stesso. Una collaborazione che permette di intercettare al meglio anche gli spunti progettuali della famosa intelligenza collettiva. Qualcosa che veda la PA non come una casa di vetro, ma come una piattaforma abilitante.
A questo proposito, condivido una tabella presente nella pubblicazione che trovo zeppa di spunti: ad esempio, guardiamo all’evoluzione dei valori nel corso del tempo. Etica hacker, libertà, apertura e collaborazione per ultima. Pare quasi che i valori precedenti diventino la base per permettere una collaborazione vera.
Se riprendiamo il piano d’azione 2016-2020 dell’e-government dell’agenda digitale europea troviamo un bel remix di concetti affini (i grassetti sono miei):
apertura e trasparenza: le pubbliche amministrazioni dovrebbero scambiarsi le informazioni e i dati e permettere a cittadini e imprese di accedere ai propri dati, di controllarli e di correggerli; permettere agli utenti di sorvegliare i processi amministrativi che li vedono coinvolti; coinvolgere e aprirsi alle parti interessate (ad esempio imprese, ricercatori e organizzazioni senza scopo di lucro) nella progettazione e nella prestazione dei servizi;
Gli elementi c’erano, ma non sono stati considerati. È sicuramente un filone da riprendere, anche come società civile. Serve aumentare la consapevolezza, serve fare cultura. Senza dimenticare che se la PA si muovesse come una piattaforma, la collaborazione si attiverebbe in maniera indipendente.
Avete mai sentito parlare di antipattern?
In informatica, gli anti-pattern (o antipattern) sono dei design pattern, o più in generale delle procedure o modi di fare, usati durante il processo di sviluppo del software, che pur essendo lecitamente utilizzabili, si rivelano successivamente inadatti o controproduttivi nella pratica. - Wikipedia
Detto in altri termini, sono dei modi comuni per rispondere ad un’esigenza ricorrente che non porta alla soluzione del problema di partenza, anzi in molti casi lo ripropone in altre forme. Vedendo i casi di mancanza di trasparenza, di accountability e di dati che sono parte di molti problemi, ho pensato che potrebbe essere un buon modo per interpretarli per andare oltre alla lamentela. Non è un’idea del tutto nuova, anzi. Sugli Open Data qualcuno ci ha pensato, ad esempio il famoso Open Data Bingo, non ci stiamo del tutto allontanando da cose già viste in passato. Non mi è del tutto chiaro se potrebbe essere utile. Ho iniziato ad abbozzare una tabella per fare un po’ di ordine sugli appunti che mi stavo prendendo.
AMBITO: Supporto alle decisioni
DEBOLEZZA OPEN GOV: mancanza di accountability
PROBLEMA | SOLUZIONE ADOTTATA | COSA NON È OPEN | PRASSI NELLA PA DA IMITARE | AZIONI PUSH DELLA SOCIETÀ CIVILE |
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Aggregare gli spunti di tutti gli stakeholders per decidere una strategia collegiale | Creazione di task force |
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Che ne pensate? Potrebbe essere utile?
Queste sono le slide che abbiamo mostrato durante il panel:
Abbiamo scelto di raccontare il civic hacking senza soffermarci troppo sulle definizioni, ma partendo da alcune esperienze significative, sia legate all’informatica che più sul versante di hackeraggio vero e proprio. Cito a questo proposito un estratto da un post di Erika, L’hacking è un atteggiamento, non un insieme di capacità: perché il civic hacking è la chiave per la creatività contemporanea:
“Hacking originariamente non aveva niente a che fare con la programmazione dei computer. A dire il vero, ‘hack’ era un termine usato per descrivere le burle inventate dagli studenti del MIT: i loro scherzi erano progetti o prodotti che prima o poi finivano, ma permettevano ai partecipanti di divertirsi anche, semplicemente, partecipando. Gli hacker del MIT descrivono quello che noi chiamiamo hacking con il termine ‘cracking’. Quando gli hacker del MIT hackerano, lo fanno per costruire ‘uno scherzo intelligente, benigno e etico, che sia al tempo stesso sfidante per chi lo organizza e divertente per tutta la comunità del MIT’”.
Le esperienze di cui abbiamo parlato sono state diverse: Confiscati Bene, TerremotoCentroItalia, la vicenda sulla statua della Madonna che ha aiutato a eliminare una piccola discarica abusiva a cielo aperto in Sicilia (raccontata in questo post da Erika), la street art (civica) di Cibooooo. Abbiamo parlato di Roma, delle buche nella strada che vengono segnalate in maniera creativa da zelanti cittadini, del progetto CommentNeelie e delle incursioni dei gappisti (Gruppi Artigiani Pronto Intervento). Tutte vicende che aiutano a riflettere sulle diverse anime del civic hacking. Dopo la testimonianza di Eusebia, che ha condiviso il vissuto della trasformazione della biblioteca comunale di Trento in quello che Erika ha sintetizzato in PA come piattaforma abilitante, siamo passati al momento delle domande da parte del pubblico presente in sala. Le riprendo qui di seguito.
A questa domanda abbiamo risposto sia io che Erika, sottolineando alcuni aspetti:
La domanda nasce dai dubbi tradizionali di condivisione e apertura di un dato/contenuto/opera che l’ente pubblico sta amministrando. A noi ha ricordato molto l’Open Data Bingo, che raccoglie un insieme di obiezioni tipiche abbinate a risposte testate da fornire a chi si ostina a non voler aprire dati e contenuti all’interno delle amministrazioni. Eusebia ha citato il classico “ma non possiamo condividere quell’opera! Ci accuseranno di danno erariale!” e ha raccontato come l’hanno risolta loro in biblioteca. La resistenza al cambiamento è uno dei sentimenti alla base di questo tipo di proteste che vengono raramente verificate in profondità, perchè sono meccanismi che mettono in discussione lo status quo. Se si verificasse davvero la fondatezza di queste operazioni di condivisione, si scoprirebbe che rientrano perfettamente in quello che deve fare una biblioteca (nel caso dell’esperienza abilitante di Eusebia).
Partiamo dai ruoli: il civic hacker può fare molto, ma in questi casi le intersezioni con l’attivismo e l’hacktivism in particolare, sono molto forti. Ne avevamo accennato le differenze anche in una newsletter passata. Ci vorrebbe lo spazio di un libro per spiegare quali sono i confini tra un ruolo e un altro: possiamo partire da alcune iniziative che fanno capire le potenzialità in gioco.
Il civic hacking abilita una capacità creativa di affrontare questioni complesse: questa potenzialità può aiutare situazioni come quelle di Barcellona. Può dare una mano al livello di infrastruttura tecnologica, sfruttando le reti mesh ad esempio (quelle di Brooklyn sono un buon esempio da cui partire), per creare delle reti alternative ad Internet per evitare censure o blocchi nella comunicazione tra i manifestanti. Oppure può fare da filtro informativo per supportare la divulgazione delle notizie vere attorno al tema per cui si sta impegnando (partendo anche dagli strumenti messi a disposizione da progetti come TerremotoCentroItalia o da iniziative locali di fact-checking come quella di Pagella Politica). Potrebbe lottare da remoto, trovando modi creativi per rendere accessibile qualcosa che è stato censurato nel Paese di origine: ci viene in mente il lavoro fatto da Cristian Consonni nel mettere a disposizione la versione di Wikipedia creando un sito proxy (via wikiproxy) in grado di aggirare la censura, quando la Turchia aveva bloccato l’accesso alla versione ufficiale da parte degli utenti Internet di tutto il Paese. Erika ha sottolineato che nel civic hacking, come in altre cose, ognuno decide quanto e come mettersi in gioco. Non c’è un manuale.
Alla fine, quando si fa civic hacking, anche solo per dare una mano concreta ad un problema civico che ci sta a cuore, si diventa cittadini attivi. Quello che può nascere da questa consapevolezza è un continuo divenire.
Il civic hacking non ha a che fare con azioni di natura illegale, ma riesce a sfruttare a suo vantaggio quelle che Erika ed io definiamo come “zone grigie”. Si tratta di ambiti che non sono gestiti in maniera esplicita e che non vietano le azioni che ci proponiamo di fare. Grazie alla creatività dei singoli civic hacker, sono modalità per fare le cose che non erano state previste da nessuno. Questo è lo spirito di base. La realtà è che si tratta di un punto di partenza: è fondamentale conoscere gli ambiti affini, come la disobbedienza civile o l’hacktivism. Una delle riflessioni più complete che delimita molti dei confini da conoscere è quella proposta da Civic Path in “The Contested World of Civic Hacking”. In ogni caso, la scelta di come muoversi dalle zone grigie verso tutte le altre modalità attuabili per portare avanti la propria iniziativa è profondamente individuale, frutto spesso di un percorso evolutivo, che non sempre porta ai risultati sperati.
Cito l’ultima parte dove Erika mi introduce, così rientriamo in pieno nell’atmosfera:
Adesso che vi ho spaventati con una cosa tecnica, vi lascio a Matteo che vi porterà un po’ più a fondo nella tana del Bianconiglio, raccontandoci di WordPress come strumento di identità territoriale, come strumento per mettere insieme cose diverse e come strumento per creare relazioni.
Prima di continuare, la risposta a una domanda che ci hanno fatto almeno un paio di persone: molte delle illustrazioni inserite nelle slide sono di Sir John Tenniels e sono tratte da una edizione illustrata del 1865 di Alice nel Paese delle Meraviglie. Abbiamo potuto usarle così facilmente perché oggi si trovano in pubblico dominio su Wikimedia Commons (via John Tenniel).
Oltre a generare dati, WordPress può dare visibilità alle comunità che sono interessate (o legate) ad un territorio. Non dovrebbe stupirci: se pensiamo agli anni di maggior rilevanza della blogosfera italiana (tra il 2006 e il 2008, anno più, anno meno), il blog era lo strumento che dava voce a chi non l’aveva attraverso i media tradizionali. Era lo strumento scelto da chi faceva citizen journalism, una forma di giornalismo nata dal basso. Pensiamo ai quartieri di una grande città: i suoi abitanti potevano utilizzare un blog collettivo per raccontare il proprio punto di vista del territorio. Spesso, erano voci che non venivano raccontate nemmeno dai quotidiani locali, perché condividevano storie difficilmente notiziabili.
Altro aspetto da non dimenticare è la potenza di aggregazione dei contenuti di blog diversi grazie alla libertà data dai flussi RSS. Questa è una possibilità che non va dimenticata, specie oggi nell’era dei social media. È un modo per uscire dai mondi controllati di questi canali che permette di gestire degli spazi dove non sottostare a regole (anche editoriali) decise da altri. Il tessuto sociale territoriale ha delle possibilità inespresse su cui vale la pena riflettere. Specie per quanto riguarda le comunità di prossimità.
In questa slide vi parlo di un’esperienza in cui ho usato WordPress per raccontare un processo di urbanistica partecipata. Nella primavera del 2012 ho dato una mano ad alcuni architetti in un processo di partecipazione che doveva raccogliere le aspettative e i desideri della cittadinanza di Vicenza, all’interno del quartiere San Pio X, un quartiere un po’ complicato per la presenza di un enorme carcere.
Avevo scoperto che esisteva una potenzialità inespressa nella gestione di questi processi di partecipazione. Non si sfruttava al massimo la Rete per la condivisione di tutti quei materiali che emergevano nel corso del processo e non era facile capire quale fosse il racconto collettivo che stava emergendo dal processo. In parole più semplici, ho configurato un blog di progetto. Ho usato WordPress come piattaforma per il blog ed un tema che fosse in grado di rendere molto visibile la navigazione temporale della fasi del percorso partecipativo. L’obiettivo era condividere tutti i materiali che venivano prodotti durante tutto il percorso partecipato il più velocemente possibile: volevamo potenziare la partecipazione della cittadinanza, aiutando anche chi non riusciva ad essere presente agli incontri fisici.
Oltre a questo, ho sfruttato lo strumento delle timeline per raccontare in modo diverso il percorso di partecipazione. Raccogliere e visualizzare la partecipazione in questo modo ha permesso anche ai partecipanti di avere uno sguardo d’insieme sul percorso che stavamo facendo. I materiali di questo percorso furono rilasciati in Open Data per permettere anche a esperienze successive di non partire da zero.
Essere civici può sembrare qualcosa di astratto, ma non è che ci alziamo la mattina con il pensiero “oggi voglio fare qualcosa di civico”. In realtà, quello che importa a tutti noi è risolvere un problema che sentiamo vicino, qualcosa che non ci permette di dormire bene la notte (questa frase l’ho rubata a Giulio Quaggiotto - @gquaggiotto, non è mia). A volte, è una questione che vogliamo far emergere e su cui chiedere aiuto, magari usando un sistema di petizioni online. L’amministrazione Obama aveva creato un servizio di petizioni per raccogliere in maniera pubblica le istanze della cittadinanza e metterle in relazioni diretta con la Casa Bianca: si chiamava We The People.
In una delle giornate nazionali dedicate agli hackathon civici, un’azienda ha sviluppato un plugin per WordPress che si integrava con il servizio delle petizioni e rendeva più semplice la discussione attorno ad una singola petizione (mostrando i numeri delle firme raccolte in tempo reale, ad esempio). WordPress era stato scelto come mezzo per supportare una maggior diffusione delle idee e delle richieste presenti in We The People. Ogni persona che aveva un blog su WordPress poteva installare questo plugin e contribuire alla discussione collettiva su una o più petizioni che riteneva più interessanti.
Insomma, avrete capito dove vogliamo arrivare: WordPress permette di mettere assieme cose diverse, basta sapere che si può fare. Un po’ come si vede nell’immagine: una sinergia di due oggetti del tutto inattesa. Un’audiocassetta a nastro trasformata in un dispositivo USB. Nel concetto di ‘civic hacking’ di cui ha parlato Erika poco fa, mi piace riprendere un’idea che è stata attribuita a Pareto (ma non so se è vero):
creatività è trovare nessi nuovi tra cose note
Ecco, questo è quello che possiamo fare se siamo in grado di immaginarlo.
Mettere assieme che cosa? Bè, prima Erika vi ha accennato le API. Di formazione sono un informatico, anche se non programmo da una vita e mezza, quindi capisco di cosa stiamo parlando. Un’API è un modo di interagire in maniera del tutto automatica tra un software ed un altro. Spesso viene definita una comunicazione da macchina a macchina (machine to machine). E cosa c’entrano le API con WordPress? Molto. Dal dicembre 2016 (dalla versione 4.7 di WordPress, per essere precisi), WordPress ha integrato al suo interno un sistema di REST API che permette il dialogo con qualsiasi altro sistema in maniera indipendente dai linguaggi di programmazione usati o dagli ambienti utilizzati. È possibile perché si parla un linguaggio standard: è un modo per superare i limiti delle scelte tecnologiche con cui è sviluppato WordPress (il linguaggio PHP in primis). Ci si può davvero concentrare su tutto quello che si può fare adesso.
Oltre alle API, che permettono di far dialogare WordPress con sistemi del tutto diversi, ci sono anche gli Open Data che possiamo usare per mettere un po’ di più le mani in pasta. Intanto, vediamo un po’: quanti di voi conoscono gli Open Data? (a questo punto si sono alzate un sacco di mani).
Ve lo dico in due parole: si tratta di dati che sono rilasciati con una licenza che permette il riuso, anche commerciale, in totale libertà. Possono esserci al massimo due condizioni: la necessità di attribuire la fonte del dato e di condividere allo stesso modo il lavoro che si sta integrando con quei dati. Un po’ come il vincolo virale delle licenze del software libero. Sfatiamo un mito: gli Open Data non sono soltanto quelli che pubblica la Pubblica Amministrazione. Possono essere creati e distribuiti anche dalle comunità (come quelli di OpenStreetMap, la wikipedia delle mappe creata in maniera collaborativa) o dagli attori privati.
Nel caso di Wordpress, esistono dei plugin che aiutano la creazione di dati tabellari che possono essere scaricati con un paio di click: se aggiungiamo i dettagli della licenza, allora WordPress potrebbe essere usato per condividere Open Data, anche se in maniera non ottimale. Ma può essere usato anche nella direzione contraria: non per pubblicare Open Data, ma per raccogliere feedback sui dati già pubblicati (un po’ come per le petizioni della Casa Bianca). L’amministrazione Obama aveva pubblicato un plugin per WordPress (Kickstart) che interrogava via API il portale data.gov (il portale con tutti gli Open Data degli Stati Uniti), mostrava i dataset presenti nel sito e permetteva ai visitatori del sito che stava usando il plugin di votare i dataset.
E qui riprendo l’esperienza di E tu cosa ci vedi come esempio pratico delle potenzialità di WordPress nell’aggregare dati generati da tanti attori diversi. Nell’immagine si vede una mappa di Vicenza, della zona del quartiere San Pio X. La mappa è una raffigurazione gestita da un plugin che avevo installato, che mi aveva permesso di usare un layer di OpenStreetMap come base e di aggiungerci alcuni dati che raccontavano le esperienze emerse nel corso di una passeggiata urbana, ad esempio posti del cuore, punti problematici e luoghi di aggregazione. La facilità del plugin mi ha permesso di concentrarmi nei dettagli dei dati e non sul come renderli disponibili attraverso una mappa. Tra l’altro, se ci fosse stato abbastanza tempo, avrei potuto creare degli utenti per i cittadini, mostrare loro come creare i dati georiferiti nella mappa e vedere cosa avrebbero raccontato, in autonomia.
Siamo quasi arrivati in fondo alla tana del Bianconiglio. Ho raccontato alcuni spunti su come WordPress sia uno strumento di identità territoriale e come sia uno strumento per mettere insieme cose diverse.
Ma è anche uno strumento per creare relazioni. Vi racconto come l’ho usato nel 2013 all’interno di un processo partecipato relativo alla candidatura dell’area del Delta del Po a sito MAB (una delle classificazioni dei siti UNESCO). Ho configurato un’installazione di BuddyPress come fosse un social network pensato per aiutare i cittadini e tutte le persone coinvolte da questa candidatura a parlare tra loro. Non era Facebook o Twitter, ma un luogo dove potevano confrontarsi in maniera mirata, facilitati dalla squadra che stava gestendo il processo di partecipazione. Trasformare WordPress in un piccolo Facebook è possibile.
Insomma, per farla breve: WordPress si adatta agevolmente, bisogna avere solo l’immaginazione per trovare il modo di trasformarlo in quello che più ci serve in quel preciso contesto.
Integro quanto già detto da Erika alla fine del suo post, quando ha parlato delle domande.
Una partecipante ci ha chiesto se per fare civic hacking è necessario coinvolgere suddette Amministrazioni.
Da parte mia ho ricordato che non è detto che il civic hacking sia qualcosa che abbia bisogno di un rapporto con le Pubbliche Amministrazioni. Vale la pena rileggere la storia di MySociety, a tal proposito.
In generale, sono rimasto colpito dalla conoscenza del termine Open Data in una comunità come quella del WordCamp: non mi è mai chiaro quanto certi temi escano dai mondi (spesso autoreferenziali) degli addetti ai lavori. È un aspetto positivo che mi dona un pizzico di ottimismo. Sapevamo comunque che il nostro talk non aveva un taglio pratico e immediato, ma serviva a fornire una serie di spunti da approfondire. La mia impressione è che sia andata bene. Contaminarsi in altre comunità affini al mondo dell’openness è utile e la comunità di Wordpress italiana ha mille attenzioni ai nuovi arrivati, ti fa sentire subito a casa!
L’immagine della cover del post raffigura lo Stregatto di Sir John Tenniels, è tratta da un’edizione illustrata del 1865 di Alice nel Paese delle Meraviglie e disponibile in pubblico dominio su Wikimedia Commons.
]]>Ho condiviso in mailing-list il post su chedati.(g0v).it qualche giorno prima del raduno ed è emerso uno spunto di riflessione che vale la pena riprendere. Sto parlando del requestathon. Alfredo Serafini mi ha ricordato che una delle proposte di hackathon per SOD19 ipotizzate ad ottobre scorso era proprio il requestathon, ovvero un hackathon per lavorare in maniera specifica sulle richieste di dati. La cosa non è poi andata in porto, ma è uno spunto utile da cui partire. Alfredo l’aveva sepolto in un p.s. di una discussione (il grassetto è mio):
sarebbe carino rilanciare la community con una specie di “requestathon” :-) Cioè creare dei gruppi (apertissimi ai non tecnici) per ribaltare la chiave di lettura che ultimamente va di moda: invece che partire dal dataset (di solito un unico tabellone megagalattico, tipicamente ben poco utile al di là dei soliti giocattoloni visti 50 volte) e fare le analisi fiche, proviamo a raccogliere le richieste degli utenti e creiamo la mappa dei puntini da collegare per ottenere alcuni obiettivi dichiarati.
Nel commento di questi giorni ha integrato, chiarendo maggiormente quello che intendeva:
Manca a mio avviso tutt’ora una “mappa” in evoluzione delle richieste di varie tipologie di utenti (cittadini, imprese, PA, analisti, etc), tale da rendere possibile una individuazione dei gap, per orientare sia la produzione che il riuso mirato dei dati. Credo che averla consentirebbe anche un certo risparmio di risorse, che potrebbero essere più proficuamente destinate a cose di cui sia più semplice verificare l’efficacia.
Cercando il termine requestathon in lista, ho trovato un rilancio di Guido Romeo del settembre 2012 sotto forma di proposta di hackathon per il decennale della giornata mondiale per il diritto di accesso all’informazione. Si trattava di un periodo storico diverso, ma non troppo. Avevamo meno possibilità normative di accesso rispetto ad oggi e anche meno Open Data disponibili, quindi era naturale partire dal favorire la domanda di dati. Un altro risultato lo si trova in un thread sul (mancato) impatto della pubblicazione degli Open Data sulla corruzione di metà settembre 2015, in una risposta di Marco Montanari (il grassetto è mio):
In tutto il nostro (non solo italiano) pontificare sui dati aperti, abbiamo puntato sulle città medio-grandi, sulle regioni, raccontando che qualsiasi cosa pubblicassero sarebbe stato importante (cosa vera, in sé, falsa se si finisce per pubblicare tutto di argomenti interstiziali), ma poi non abbiamo iniziato a spingere con delle vere check-list sui dati puntuali, delle tempistiche di rilascio, dei formati standard minimali, la verifica delle tempistiche, il naming&shaming delle amministrazioni inadempienti ecc… Ad esempio, AGID ha pubblicato i famosi dati promessi? nei tempi? Abbiamo visto l’impatto del non pubblicarli: ZERO.
Vista con gli occhi di oggi, questa critica è assolutamente attuale e sono convinto che vada ripresa, interpretandola con tutto quello che abbiamo imparato nel frattempo.
Ci sono due slide in particolare su cui vorrei soffermarmi: la prima è relativa ai retroscena dell’idea del servizio (immaginario) chedati.(g0v).it.
Esplodo alcune di queste parole chiave, nel caso non fossero chiare.
Onore al merito: @opendatamilano ci ha dato subito i dati per #SOD19, mentre @alemannoEU e io stiamo da un mese e mezzo per farci dare i dati sulle proposte non approvate di Horizon2020 da DG RESEARCH. Per ora hanno preso tempo. https://t.co/Yk6vcyk2dP
— Alberto Cottica (@alberto_cottica) June 1, 2019
La seconda slide su cui vorrei soffermarmi è l’ultima, quella sull’open-washing (di open-washing, ne abbiamo parlato nel primo numero della newsletter del 2019 di #CivicHackingIT):
Vediamo di spiegarla: da un lato, la Pubblica Amministrazione nel 2019 ha interiorizzato la necessità di gestire e pubblicare Open Data, rendendo più burocratico tutto il processo (anche per necessità normative, non solo per volontà delle singole amministrazioni). Il dettaglio del come gestire e pubblicare i dati è nascosto in ennemila risorse (piano triennale, piani di azione di OGP, iniziative guidate dai consulenti, etc…). Dall’altro lato, la società civile è frammentata come non mai su questo tema, complice la difficoltà di uscire dal momento di stallo, dopo la fase di entusiasmo iniziale del movimento italiano.
Tornare a ragionare sulla domanda senza venire fagocitati dai meccanismi amministrativi - che non sono e non dovrebbero essere un onere della società civile - è una delle vie di uscita da questa impasse. L’altra è riconoscere che molte iniziative degli enti pubblici legate agli Open Data sono solo operazioni di facciata, operazioni di open-washing che riducono la percezione del valore associato agli Open Data da parte delle persone che non conoscono l’argomento.
Tornare a chiedere dati che non troviamo e pretendere una maggiore trasparenza quando si tratta di (mancata) pubblicazione dei dati sono soltanto due delle cose da fare. Assieme, però. Le azioni fortemente individuali (come quelle dei soliti noti che, ad esempio, continuano a popolare il canale di forum.italia.it) non sono efficaci. L’abbiamo visto su più fronti. Dobbiamo tornare a muoverci assieme e fare più squadra.
Durante la discussione a SOD19 sono emersi diversi spunti (grazie soprattutto a Daniele Crespi e a Alessio Cimarelli). I due su cui ci siamo soffermati di più li riporto per continuare il confronto.
È utile ricordare che i premi legati alle performance dei dirigenti pubblici iniziano ad essere associati anche ai risultati della pubblicazione di Open Data: la scelta di quali dati inserire nel piano dell’attività di pubblicazione diventa fondamentale. Questa scelta dovrebbe dipendere dalla domanda di dati e non dalla volontà di pubblicare dati facili per raggiungere l’obiettivo. Non è qualcosa del tutto nuovo, tra l’altro. Se ne parlava già nel raduno di Spaghetti Open Data del 2014:
per avere più #opendata basta metterli negli obiettivi delle performance dei dirigenti: il caso della Regione Lombardia #SOD14
— Michele d'Alena (@MicheledAlena) 28 marzo 2014
Qualsiasi azione in grado di aumentare la consapevolezza nella società civile dell’importanza di chiedere i dati di cui ha bisogno è essenziale. Che ne pensate?
Ps - per chi non lo sapesse, il sito di Spaghetti Open Data era il NON portale dei dati aperti italiani nel 2010. Oggi, a metà del 2019, pensare di lavorare al portale dei NON DATI ha qualcosa di affascinante e di ciclico (nel 2020 saranno dieci anni della comunità di SOD, tra l’altro).
Prima di focalizzare alcuni aspetti di questa organizzazione, se ti interessa conoscerne la storia e hai poco tempo, nel loro sito ufficiale c’è una timeline davvero comoda e ben fatta.
Siamo nella primavera del 2003 quando James Crabtree pubblica un articolo dal titolo Civic hacking: a new agenda for e-democracy - è lo stesso che ho citato anche nell’ultimo post, vale la pena focalizzarlo meglio. La prima cosa da notare è l’associazione di hacking e ‘civic‘: il termine “civic hacking” si trova perfino nel titolo e, a quanto ne so, pare sia la prima apparizione di questo termine in Rete).
In quell’articolo si lancia una provocazione all’idea condivisa di democrazia digitale in voga quegli anni. Viene messa in discussione la visione dell’e-government, dove lo Stato progetta, gestisce e mette a disposizione sempre più servizi via Internet, all’interno di un contesto di e-democracy. Il problema da risolvere (ieri come oggi) era trovare un modo per riavvicinare le persone alla politica. Molti pensavano che un pizzico di Internet sarebbe bastato, ma Crabtree non lo credeva. Il fulcro del suo ragionamento è questo (il grassetto è mio):
Networked technology can help representative democracy a little, but it is unlikely to be able to help a lot. It comes down to a basic problem: if someone isn’t interested in politics, and they don’t see the point in taking part, doing it online is not going to help much.
The good news is that there may be a better way. The internet can help to improve the civic lives of ordinary people, but only if it is based on a different principle. E-democracy should not be primarily about representation, participation, or direct access to decision makers. First and foremost, it should be about self-help.
Public investment in e-democracy should be about allowing people to help themselves, their communities, and others who are interested in the same things as them. As I will explain, the centre of such a strategy should be state support for what I call ‘civic hacking’, or the development of applications to allow mutual aid among citizens rather than through the state.
Non entro ulteriormente nel dettaglio perché il pezzo merita una lettura integrale. Si tratta di una grande intuizione e viene sviluppata alcuni anni prima della nascita dell’hype sul Web2.0, che avrebbe portato allo sviluppo del potenziale nascosto delle comunità online negli anni successivi.
Nella visione di Crabtree, il civic hacking è l’occasione per i cittadini di riprendere il controllo sulla delega democratica, attraverso la risoluzione di alcuni dei problemi civici a cui i cittadini stessi, intesi come comunità abilitata da Internet, tengono particolarmente, in maniera del tutto autonoma. Almeno in teoria. Non si tratta più soltanto di dipendere - o di partecipare - alle decisioni dei propri rappresentanti politici, anzi. Si tratta di qualcosa di diverso. Quell’articolo di Crabtree viene commentato da Lee Bryant (imprenditore sociale, co-fondatore di Headshift, azienda che - in quegli anni - studiava l’impatto del software sociale nell’organizzazione delle aziende), ne cito un estratto (il grassetto è mio):
the experience of Czechoslovakia (1968-1980s) taught us a lot about what happens when the state closes the space in which civil society can operate, and the Charter 77 movement that eventually precipitated the Communist system’s downfall became a model for civil society activism across Europe. It is no coincidence that George Soros’s Open Society Institute has spent its money on boosting civil society in former Communist-bloc countries (including substantial investment in new media and education) rather than on trying to find better ways of connecting people to the state
Is e-democracy just about giving us more/better access to government? Is it about replacing representative democracy with some form of interconnected emergent democracy, as some have tried to argue? Possibly. However, James’s piece reminds us that we should also pay attention to ways in which Internet technology can help us strengthen the social, civil society roots of democracy – and in an ideal world the government would not even be involved.
Mi sembra importante ricordarlo: era il 2003. Questo punto di vista è assai attuale: pensiamo a quanto sia forte oggigiorno la tendenza a promuovere la partecipazione in senso lato, come se fosse una cosa positiva di per sé, senza valutarne assolutamente l’impatto. Nella visione del governo aperto non si è messa in discussione la base, il fondamento su cui opera la democrazia rappresentativa. Come accennato nel post precedente, in Italia non mi sembra sia mai arrivata questa connotazione del fenomeno civic hacking. Mi sembra che ci siamo fermati molto all’antefatto, all’utopia - forse - che Internet potenziasse positivamente il modello di democrazia già esistente, senza ragionare su particolari frizioni e senza mai mettere in discussione tutto il contesto. Mi riferisco soprattutto sull’attenzione data al ruolo delle comunità, non tanto sulla retorica del passaggio alla democrazia diretta.
La cosa positiva è che quell’articolo di Crabtree diventò un catalizzatore per Tom Steinberg, che lo riprese all’interno di un workshop del settembre 2003 in una proposta intitolata “_The civic hacking fund_”, il fondo per il civic hacking. La versione originale è ancora disponibile, se si vuole leggerla integralmente. Steinberg, fondatore e direttore di mySociety fino al 2015, era un ex dipendente della Pubblica Amministrazione britannica, che, grazie alle sue esperienze, intuisce la necessità di un finanziamento pubblico che sostenga lo sviluppo di progetti civici, la cui selezione venga fatta attraverso una “gara” che ha un meccanismo ben preciso. I progetti dovevano essere valutati da una giuria di esperti, oltre che in modalità crowdsourcing. Da questa intuizione, nasce mySociety.
L’elemento da enfatizzare di questo ragionamento è l’aspetto “business”: per stimolare - e invogliare - la partecipazione dei programmatori - che sono spesso lontani dalla politica e dalla partecipazione civica - è necessario un giusto incentivo in denaro. Il volontariato funziona soltanto quando si va a toccare qualcosa a cui le persone tengono davvero, può arrivare soltanto fino ad un certo punto e difficilmente è in grado di attirare nuove risorse. Steinberg ne era consapevole, avendolo già vissuto nei primi anni Duemila. Un insegnamento prezioso.
Dopo aver studiato la storia di mySociety per il libro, mi vengono in mente due considerazioni da cui partire per ragionare sull’ecosistema italiano.
Le azioni di hacking civico non possono essere pensate come azioni a lungo termine, ancor più se sviluppate e gestite solo attraverso il volontariato. Sono atti che dovrebbero essere interpretati come stimoli, come azioni una tantum, degli hack che dovrebbero essere una fonte di ispirazione. Le iniziative più famose - e strutturate - che troviamo all’estero, prime fra tutte Code for America e mySociety - hanno sempre un modello di business e dei fondi da cui attingere; quelle risorse sono utilizzate per crescere e per trovare una propria sostenibilità (come modello operativo), oltre che per coinvolgere nuove persone o altre organizzazioni. Questo significa che possiamo sempre parlare di ‘esperimenti di civic hacking’, ma quando parliamo di esperienze durature gli esperimenti si trasformano (tutto sommato piuttosto velocemente) in quello che si definisce ‘civic tech’. Attraverso questa maggior “struttura”, quelle esperienze, nate come esperimenti, assumono le sembianze di progetti più credibili anche da parte delle istituzioni pubbliche. In questo modo si chiariscono gli interessi di ognuno degli attori in campo (“Perché dici queste cose?” “Perché lavoro per mySociety che si occupa di partecipazione civica”).
Quello che mi chiedo è: dove si blocca/è bloccato un potenziale meccanismo di questa natura in Italia? Spesso ci sono pochi e isolati contest territoriali con premi in denaro talmente bassi da non riuscire a coprire nemmeno un paio di mesi di stipendio di un paio di programmatori. Bandi per aiutare la PA ad accedere ad un servizio x al prezzo più basso possibile e nulla per stimolare la resilienza delle comunità. Un premio come quello dell’OpenGov Champion (assegnato agli attori della società civile nel 2018 dopo aver premiato le pubbliche amministrazioni più virtuose nel 2017), non poteva essere uno stimolo per aiutare la crescita economica (e la ricerca di un modello di sostenibilità) di progetti che siano davvero utili alla società, come FOIAPop?
Certo, il premio simbolico aiuta, il riconoscimento anche, ma un piccolo fondo per far evolvere i progetti meritevoli sarebbe stato un’altra cosa. Una qualche forma di crowdsourcing collegata al principio di sussidiarietà potrebbe essere un’altra via da approfondire. Un’altra potrebbe essere collegarsi ai finanziamenti sul fronte dell’innovazione sociale (come questo esempio).
James Crabtree, già nel 2003, mette le comunità al centro, di prepotenza. Questo è sicuramente un tassello su cui soffermarsi ulteriormente: significa recuperare il senso di quel concetto di ‘_comunità intelligente_’ in contrapposizione alla visione tecno-centrica delle smart city. Non concentrarsi sulla tecnologia, ma portare di nuovo sotto i riflettori la capacità di auto-gestione di una comunità locale all’interno di una società connessa, dove chi amministra ha un ruolo di attivazione, di stimolo (eventualmente). In questa visione, la tecnologia diventa un semplice mezzo, mentre l’azione politica dovrebbe ripensarsi e trovare un ruolo nuovo nella relazione con i cittadini e con gli amministratori. Qualcosa che mi ricorda un’altra visione,la città Open Source promossa da Bernardo Gutiérrez che mette in discussione i principi democratici ripartendo dalla dimensione locale, integrando gli spunti di Crabtree (anche se in maniera implicita).
Anche il ruolo del civic hacking, se applicato a questa visione, cambierebbe radicalmente rispetto a quello che viene percepito comunemente. Riprendere consapevolezza di essere parte di una comunità più ampia e nello stesso tempo di n comunità locali è un modo di recuperare una parte del tessuto sociale che oggi è messo in dubbio nelle sue radici. Questa, almeno, è l’impressione nell’osservare l’agenda setting dei mass media degli ultimi anni. Un primo passo sarebbe aumentare la coesione di quegli attori della società civile italiana che in questi anni hanno avuto a che fare con il civic hacking, spesso senza fare fronte comune. Servirebbe abbracciare una logica di coopetizione vera, partendo da un un tema che sentiamo tutti quanti davvero importante, che funga da catalizzatore e permetta di travalicare le differenze e unire mondi diversi. Ne ho in mente qualcuno da cui si potrebbe partire. Incidentalmente, mi viene in mente un capitolo del libro Beyond Trasparency, “Towards a Community Data Commons”, che merita una lettura completa, ma che cito come spunto a tema (i grassetti sono miei):
Writing recently about the patterns of community technology development, Michael Gurstein (2013) called for innovation to be **something that “is done by, with and in the community and not simply something that is done ‘to’ or ‘for’ the community.**” This may be such a strategy: generating community resource data through the generation of resourceful community. As such, a cooperative solution may not only yield better data—it is also likely to yield more effective use. Whereas Open311 demonstrates the paradigm that Tim O’Reilly famously dubbed “government as platform,” here we can point to its corollary precept, community as platform, in which technology is not something that is made for people to consume, but rather made by people to share.
Forse per unire le diversità serve un fronte comune, qualcosa di pragmatico e potente allo stesso tempo, che faccia da collante e serva da rilancio per una nuova fase. Chissà se sono il solo a sentirlo.
A questo punto, non posso proprio più rimandare la lettura di “Democrazia senza partiti per approfondire il pensiero di Olivetti e vedere quali spunti potrebbero tornare utili al movimento del civic hacking, no? :)
Lavorando al libro, avendo partecipato come tutor alla seconda edizione della Scuola di Tecnologie Civiche e grazie alle discussioni con Erika - e con altri appassionati del tema - sono arrivato a considerare alcune differenze tra civic hacking e civic tech:
CIVIC HACKING | CIVIC TECH |
---|---|
fuori dagli schemi, inatteso, scomodo | a sistema, parte del mercato |
attivismo e/o volontariato | professione/lavoro |
sforzo individuale e/o di un gruppo ristretto | azione sostenibile nel tempo, progettata sia nelle risorse che economicamente |
focus: il problema da risolvere, sentito prima di tutto a livello personale | focus: adattare una tecnologia per risolvere n problemi simili |
Il civic hacking nasce dal basso, non sempre si pone questioni economiche (almeno nella fase iniziale) ed è frutto di sforzi volontari. Nel fare propria l’attitudine hacker, non è detto sia necessaria una relazione con le istituzioni, almeno in generale. Fare civic hacking significa (anche) occuparsi di tecnologia, ma non è mai l’obiettivo principale.
Il civic tech, invece, è molto più concentrato sulle tecnologie e su come esse possano aiutare i cittadini a relazionarsi con le istituzioni. A livello internazionale, il civic tech è - spesso - in mano ad uno dei giganti della tecnologia che propone l’uso di una propria tecnologia a scopi civici (ne è un esempio il movimento intorno alle smart cities, almeno per come è stato percepito in Italia). Da questo punto di vista, è una dimensione molto vicina al gov tech: ci si focalizza sugli strumenti (spesso tecnologici) e sull’efficienza nell’amministrazione. Se il gov tech si concentra sul lato istituzionale, il civic tech ha un animo votato all’aiutare i cittadini.
Tornando al civic hacking, una delle prime volte che il termine è stato usato è stata nel giugno 2003 in un articolo pubblicato nel sito opendemocracy.net:
Marshal McLuhan’s dictum was: “The medium is the message”. At base, this means that certain media, or mediums, are good at doing different things. The internet is peculiarly effective at connecting groups of people together. In fact, this is what it does best.
So, a sensible strategy would start on this principle. But the people it should be connecting are not citizens and parliamentarians, or voters and civil servants. It should be connecting ordinary people with other ordinary people. And there should be applications that help these people to help each other. A programme supporting civic hacking can do this.
This should become the ethic of e-democracy: mutual-aid and self-help among citizens, helping to overcome civic problems. It would encourage a market in application development. It would encourage self-reliance, or community-reliance, rather than reliance on the state.
Io ho la netta sensazione che questa interpretazione sia mancata nel dibattito di questi anni sul ruolo del civic hacking, specie nel panorama italiano dove spesso il civic hacking si è trasformato in un altro modo di lavorare gratis per la cosa pubblica.
Il civic hacking può essere l’inizio di qualcosa, uno sforzo che sfocia in un prototipo civico: in alcuni casi, il prototipo evolve e si trasforma, diventa sostenibile - anche economicamente - e passa allo stadio di ‘civic tech’.
Tutta la vita dei progetti di civic hacking, anche nella loro trasformazione in civic tech, hanno bisogno di una cosa fondamentale per assolvere al loro obiettivo civico: la visione dell’amministrazione pubblica come piattaforma (il famoso ‘government as a platform’). Una piattaforma dove la società civile possa creare e progettare quello che più desidera. Nel caso più estremo di civic hacking, le persone e le comunità risolvono autonomamente i problemi civici che ritengono fondamentali , muovendosi all’interno di una piattaforma abilitante e non paternalistica. In caso contrario, i prototipi nati da azioni di civic hacking non possono avere nessun impatto concreto.
Nell’analisi sulla diffusione del termine ‘civic hacking’ che ho pubblicato a settembre avevo anticipato la necessità di riflettere sul legame tra civic tech e civic hacking. Nella seconda parte di quel post, c’è lo spunto dal quale partire:
“Nell’agosto del 2015 Mark Headd, ex Chief Data Officer di Philadelphia ed oggi Innovation Specialist all’interno della mitica 18F, ha scritto un approfondimento dal titolo ‘The civic hacker hacked’. Headd pone l’attenzione su quello che definisce la ‘gentrificazione dello spirito hacking’ all’interno del movimento civic hacking negli Stati Uniti, ponendosi delle domande aperte. […] contestualizza il civic hacking come una forma contemporanea di volontariato e di attivismo civico, al pari di potenziale bacino di partenza per l’assunzione di nuove persone ben motivate all’interno dell’apparato governativo”.
Il civic hacking è una forma contemporanea di volontariato e attivismo civico.
Nella newsletter di #CivicHackingIT che abbiamo inviato sabato 18 novembre (http://bit.ly/CivicTech-CivicHacking), abbiamo approfondito la dimensione ‘civic tech’, per la nuova edizione della scuola di tecnologie civiche. Erika ha introdotto il ‘civic tech’ in questo modo:
“Cosa succede quando il civic hacking diventa permanente? Abbiamo rotto gli schemi, trovato soluzioni creative e cambiato le cose. E adesso?
Una delle risposte è il civic tech - o tecnologie civiche. Usando una definizione piuttosto ampia, si tratta di tecnologie che potenziano la relazione tra cittadini, istituzioni e imprese, con il fine ultimo di migliorare la società. Uno strumento di partecipazione? Non proprio. O meglio, non solo. Relazione non significa solo processi partecipativi, significa essere parte del processo decisionale. Significa anche essere in grado di abilitare servizi migliori, lavorando assieme (come attivisti, amministratori, cittadini, imprenditori e chi più ne ha, più ne metta). Tenere a mente che lavoriamo tutti per far andare avanti la stessa baracca è fondamentale ;).”
In quella newsletter abbiamo inserito anche un paio di approfondimenti che fanno emergere alcuni elementi importanti:
Fabio Malagnino (tra i relatori della scuola di tecnologie civiche), parla in questo modo di civic tech:
Civic e Gov Tech continuano ad essere temi caldi quando si parla di modi per migliorare il governo e la governance delle istituzioni. Tuttavia una definizione esaustiva di tecnologie civiche è ancora un processo in via di realizzazione. Per quanto riguarda il rapporto con le istituzioni, possiamo intenderla come un insieme di tecnologie che consentono una maggiore partecipazione alla vita pubblica o che assistono i governi nella fornitura di servizi ai cittadini per rafforzarne i legami.
Alcuni usano l’espressione “civic tech” come un termine onnicomprensivo per spiegare tutte le soluzioni legate al settore pubblico e alla vita civile, ma sicuramente la dimensione legata al rapporto con il governo è quella più adeguata.
Civic tech sono anche le tecnologie abilitanti che permettono al pubblico di mettere a disposizione i propri talenti. Hackathon, contest, sono momenti di scambio e confronto dove, grazie alle tecnologie civiche, il cittadino può contribuire al miglioramento delle politiche pubbliche.
Il punto di vista è focalizzato sulle persone e sulle tecnologie, ma la dimensione della politica pubblica è assolutamente rilevante. Fabio si ispira al contesto internazionale, dove la dimensione del civic tech è diventata rilevante, un vero e proprio settore di mercato. Lawrence Grodeska (founder della piattaforma CivicMakers) ha raccontato alcuni passaggi di questa evoluzione nel post: “#CivicTech Primer: What is “civic tech?”, che cita il famoso report del 2013 prodotto dalla Knight Foundation, dove si trova anche la rappresentazione qui sotto.
Il giro d’affari aumenta di anno in anno, specie nel mercato statunitense, ma esiste anche un’etica civica ben precisa. L’interpretazione sull’evoluzione del civic tech di Grodeska è interessante, vale la pena leggerla tutta. Ne cito un estratto:
Civic tech has its roots in government technology, a movement jump started by Tim O’Reilly’s formative Government 2.0 call to action in 2009. Decrying the “vending machine” model for government in which citizens put in our taxes and get services in return, he argued that we instead need an interoperable, extensible platform for government upon which anyone can build services that increase transparency, efficiency and participation.
[…] I view civic tech as a new “big tent” movement for democracy that encapsulates many smaller segments, such as gov tech, online campaigning, digital advocacy, and voting tech. […] With software continually devouring so much of our lives, I see civic tech as an opportunity to embed “we” at the center of our technology. In civic tech, technology is always the means to an end, not the end itself.
Per dare un’idea della dimensione lavorativa associata al civic tech, è utile citare un approfondimento pubblicato nell’agosto 2017 in merito alle fellowship proposte da diverse realtà del civic tech, dove si trova questo riepilogo:
Le posizioni che non prevedono uno stipendio sono un’assoluta minoranza.
Osservando questi materiali, si nota che il civic hacking fa poco la sua comparsa, in molti casi non si cita proprio per nulla. C’è un motivo di fondo: il report del 2013 realizzato dalla Knight Foundation si focalizza soltanto nella mappatura di tutte le realtà con una dimensione economica. Ma forse c’è anche un altro motivo: il civic hacking spesso lavora ai margini, non sempre è sostenibile (non si pone questo problema nella sua genesi) e di solito non ha budget, si tratta di qualcosa di totalmente volontario. Idealmente, è lo spunto iniziale di progetti che, successivamente, riescono a trovare una dimensione nel settore del civic tech, almeno per quanto riguarda il panorama internazionale.
A questo punto, in Italia esiste il settore del civic tech? Se dovessi rispondere così, su due piedi, non mi sembra. Esistono alcuni attori che fanno civic tech, ma non un settore vero e proprio. Esiste un movimento di civic hacker che cercano di avere un impatto con i loro prototipi, ma che fanno moltissima fatica. Forse il problema da affrontare è nelle fondamenta, quelle che citavo all’inizio del post. La politica e le istituzioni pubbliche in Italia hanno davvero accettato e fatta loro la visione del ‘government as a platform’? Probabilmente no. Questo merita un altro post.
Chiudo con uno spunto dalle brigate di Code for America (la costola delle attività di Code for America che aggrega le comunità territoriali di civic hackers americani). Il blogpost, scritto da Luke Fretwell (creatore di GovPress, un tema di Wordpress pensato specificatamente per le istituzioni pubbliche) in occasione della riflessione sul modello di business per la sostenibilità delle brigate stesse, si intitola “Hacking civic hacking”. Anche se vale la pena leggerlo tutto, ne cito solo alcune parti:
I know I’m simplifying this, but it’s not clear to me why civic hacking needs a substantive financial model. In many ways, it appears to be an impediment to grassroots growth.
What’s happening with the Brigades is important context for civic hacking as a grassroots movement, because the movement itself should retrospect and re-consider its role in the civic technology ecosystem.
By re-thinking its purpose in the context of a structured organization and defining success metrics, Brigade and those who identify as civic hackers may change their expectations on whether heavy funding in the traditional sense at this phase of the civic innovation pipeline is necessary.
[…]
The original objectives around civic hacking — opening data, increasing public sector use of open source and showing government how it can leverage both to expedite technology innovation — have all been adopted to varying degrees. This doesn’t mean there is no longer a need for civic hacking. It just means that those who closely identify as such need to re-imagine, find new relevance and recognize scalable impact and more exits are a role it can help foster.
There’s no question civic hacking is a critical component to the civic technology innovation ecosystem, but altruism, passion and self-motivation are requisites for entry, and you shouldn’t need funding for that.
Ecco perché abbiamo approfondito la nascita e l’evoluzione di questa realtà. In questo percorso di approfondimento ho scoperto alcuni elementi che non conoscevo. In realtà, ho capito di avere delle idee molto vaghe e che alcune erano addirittura sbagliate, in particolare sul modello di business dell’organizzazione. Sono sicuro che questi “miti” siano legati, soprattutto, alla difficoltà di interpretare la società americana: noi la osserviamo attraverso la nostra esperienza culturale, dove le attività civiche sono spesso frutto di attivismo e volontariato e dove la dimensione del no profit è rilevante nel welfare, mentre è praticamente assente in altre dimensioni.
Pensando a Code for America e a quei “miti” che avevo in testa, ho deciso di sfatarne alcuni, legati sia al ruolo che al lavoro svolto. Se penso alle sperimentazioni fatte negli anni da Wikitalia, Code4Italy e dall’associazione Digital Champions, tutte esperienze che in qualche modo hanno preso spunto dal modello di Code for America, mi rendo conto che serve chiarire alcuni punti ed imparare dagli errori del recente passato.
Le fondamenta da cui partire sono il contesto sociale in cui si sviluppa Code for America. Queste fondamenta possiamo pensarle come composte da due fattori: uno è l’equilibrio che esiste tra attore pubblico e privato nel supportare le attività civiche e il secondo è l’idea che sia importante restituire qualcosa al proprio Paese, quello che gli statunitensi chiamano ‘give back’. Due fattori che non hanno pari nel contesto italiano, se non nel nostro servizio civile. Ho approfondito questo spunto in un articolo pubblicato qualche settimana fa per ForumPA “Quale ruolo per il cittadino del XXI Secolo? Spunti di riflessione per il nuovo governo“.
Prima di concentrarci sui “miti”, è fondamentale parlare del programma di affiliazione (Code for America Fellowship), l’attività principale svolta da Code for America. Riccardo Luna ne aveva parlato nel libro “Cambiamo tutto“ così: «Ero rimasto colpito dall’idea di partenza di CodeForAmerica, un progetto nato nel 2009 per fornire alle città americane “applicazioni civiche”. Il focus sulle città era interessante per vari motivi. Intanto perché sono proprio le città le amministrazioni più esposte in periodi di crisi della finanza pubblica come questo, e un governo aperto è prima di tutto un governo più efficiente: è un governo che spende meglio i pochi soldi pubblici disponibili. La trasparenza della politica porta infatti a minori sprechi azzerando malversazione e corruzione; mentre la partecipazione dei cittadini consente di attivare le intelligenze migliori e di prendere decisioni più ponderate e meglio raccontate quand’anche non fossero le più condivise».
Code for America si concentra sui problemi delle città, facendo incontrare domanda e offerta. Cinque tra programmatori, sviluppatori Web, designer: è questa la squadra di affiliati inviati nelle prime città che partecipano al programma, una squadra che dovrebbe aiutare a risolvere i problemi civici presentati dalle città stesse nella fase di adesione all’iniziativa, lavorando a tempo pieno per dieci mesi.
Condivise queste premesse, passiamo ai miti da sfatare.
Questa l’ho sentita molte volte nel corso degli anni. Quello che sapevo era questo: Code for America inviava per un anno cinque programmatori pagati dagli sponsor tecnologici - i giganti del calibro di Google, Amazon, Microsoft, etc… - e le città non dovevano pagare nulla, non c’era alcuno scambio di denaro tra Code for America e la singola municipalità. Sbagliato, sbagliatissimo.
In realtà, fin dalla prima esperienza del 2011, le città che si candidavano al programma di Code for America dovevano garantire la copertura del pagamento di 225.000 dollari (lo stipendio dei cinque affiliati di Code for America per 10 mesi). Oltre a questo, dovevano garantire un commitment forte nella gestione del progetto (per non bloccare i lavori per questioni burocratiche o politiche), e un mese di ospitalità a tutta la squadra, che doveva essere guidata nel “city tour”. Una sorta di esplorazione per capire il contesto locale e toccare con mano le problematiche da risolvere. Sia le città che i candidati a diventare degli affiliati a Code for America dovevano essere approvati dal board di advisor di Code for America, nel rispetto di tutte le condizioni esplicitate nel bando.
Nel primo anno di Code for America - dal settembre 2009 a luglio 2010 - c’era soltanto una persona che lavorava a tempo pieno per l’organizzazione, Jennifer Pahlka, la CEO e la fondatrice. Si era licenziata dal lavoro precedente e aveva messo anima e corpo nell’azienda no-profit che stava fondando. Era una vera e propria startup desiderosa di mettere alla prova un modello di business il più velocemente possibile. Pahlka riesce ad avere il supporto di diversi advisor che vengono dai grandi attori del mondo Web2.0, un mondo che stava nascendo proprio in quegli anni (lei era una delle persone che ha organizzato le prime conferenze mondiali sul fenomeno Web2.0, assieme alla casa editrice O’Reilly).
Sunlight Foundation si offre come organizzazione da sfruttare come supporto fiscale, mentre si lavora alle pratiche per il riconoscimento della nuova organizzazione allo status 501(c)(3) - una particolare tipologia di organizzazione no-profit che permette la deduzione delle donazioni. Il primo anno di attività Code for America riceve 30.000 dollari in donazioni, oltre ad contributo proveniente da Omidyar Network che permette di pagare i salari del 2010.
Il lavoro realizzato nelle città attraverso il programma di affiliazione viene pagato completamente dalla pubblica amministrazione, vedi Mito #1.
I miti precedenti chiariscono come tutta l’attività gestita da Code for America sia lavoro a tempo pieno, retribuito e riconosciuto come tale.
La parte di attivismo nasce nell’aprile del 2012 ed è destinata a chi non vuole (perché non desidera lasciare il proprio lavoro o dedicarsi a tempo pieno all’iniziativa, ad esempio) o non riesce ad accedere al programma di affiliazione. Si tratta delle brigate di Code for America. Questo progetto viene annunciato a dicembre 2011 e la sua genesi viene integralmente coperta (come costi) da una donazione di Google di 1,5 milioni di dollari (parte di questa donazione viene destinata al lancio del programma di accelerazione).
Code for America sfrutta l’arrivo della donazione per lanciare le brigate e non lo fa nel tempo libero, soltanto perché ne vedeva il bisogno. Dedica risorse, strategia e anche un pizzico di denaro, specie nei primi anni, per coprire i costi gestionali degli incontri delle varie brigate e supportarne l’attività. Solo nel luglio 2016 questo tipo di modello viene rimesso in gioco, specie dal punto di vista del supporto economico.
Fin dagli inizi, tutte le persone che si dedicano alla gestione degli affiliati e delle brigate lo fanno come attività principale del loro lavoro. Hanno competenze specifiche e sono consapevoli che devono far crescere quelle comunità da zero, creando regole condivise, un senso di identità e delle attività in modo che le comunità diventino sostenibili nel tempo. Sostenibili sia nella gestione interna delle attività, delle discussioni e della capacità di leadership, che da un punto di visto economico. Non si tratta di qualcosa che viene lasciato al caso, o soltanto a qualche volontario che riesce a dedicarcisi nel proprio tempo libero. Vengono decisi dei ruoli ben definiti per facilitare l’organizzazione nelle brigate e il trasferimento dei valori e dell’identità di Code for America verso la dimensione locale: i capitani di brigata.
Code for America è guidata da una visione tecno-utopista, ma non è guidata dalla tecnologia, dai programmatori e dagli sviluppatori. L’idea di fondo è applicare il potenziale del Web2.0 alla Pubblica Amministrazione, sia come metodologie che come competenze. Mondi che, se pensiamo a dieci anni fa quando nasce il progetto, erano davvero distanti anni luce, anche in un Paese come gli Stati Uniti. Le squadre di affiliati da inviare nelle città non erano mai composte soltanto da sviluppatori: questa necessità di avere ruoli e competenze variegati era molto chiara, fin dalla nascita dell’organizzazione. Designer, architetti dell’informazione e project manager erano elementi essenziali delle squadre. Nel corso dell’evoluzione di Code for America, l’idea che si potessero risolvere i problemi civici solo grazie al potere delle app è cambiata. C’è stata un’evoluzione e ora l’attenzione si è concentra sulla capacità di aggregare un network di persone che possa ripensare la gestione del lavoro nella Pubblica Amministrazione statunitense. Un gruppo di persone che riesca a pensare ad un modo di lavorare adatto al Ventunesimo Secolo. Una Open Innovation guidata dalla comunità, in un certo senso.
In quali di questi “miti” credevi? In tutti o in altri? Ti interessa approfondire altri aspetti di Code for America? Parliamone :)
Se non hai nessuna alba di cosa sia Spaghetti Open Data, ti rimando alle slide che ho usato nel giugno 2016 per la conferenza OpenGeoData Italia.
Questi sono dati aggiornati al 10/3/2018.
Spaghetti Open Data nasce nel 2010. Il sito spaghettiopendata.org è il “non-portale” degli Open Data italiani da ottobre 2010 a novembre 2011. Un contenitore di dati pubblici: un monito per la Pubblica Amministrazione, esattamente come il lavoro fatto dagli amici di Open Data Sicilia con il loro “non-portale” regionale negli ultimi anni. Un esperimento. Un prototipo.
Se ti stai chiedendo se il 2010 sia stato un anno particolare, devo dire che lo è stato: senza l’attenzione odierna data ai social, la Rete si sviluppava molto attorno ai blog e alla blogosfera. Uno dei contributi più rilevanti che ricordo è quello del blog collettivo TANTO. Tra i diversi spunti di riflessione utili a capire l’humus da cui poi nasce la comunità di Spaghetti, c’è questo post di Pietro Blu Giandonato.
Tornando a SOD, è agli inizi di settembre 2010 che Alberto Cottica lancia questo appello dal suo blog: «Pensa come sarebbe bello se adesso funzionari pubblici, bloggers e hackers civici collaborassero alla costruzione di qualche piccola risorsa per gli open data italiani. Prima o poi ci sarà un data.gov.it, ma nell’attesa non è detto che dobbiamo stare fermi! Lancio una proposta: se siete a conoscenza di dati pubblici e aperti, a qualunque dimensione (da quella nazionale a quella del quartiere: ci sarà pure qualche Comune o qualche Asl “smanettona” là fuori!) e su qualunque cosa, fatemelo sapere. Non importa come: commenti al blog, sui social network, telefono, segnali di fumo, quello che volete. Io mi impegno a condividerli in qualche modo (molti si sono ammassati qui in modo abbastanza spontaneo)».
La mailing-list nasce il 21 settembre 2010, proprio per discutere di questo appello. Viene pubblicato il primo messaggio e si inizia a ragionare su come organizzare tutti i dati che ha collezionato Alberto. Fin da subito nasce un dibattito sul significato di dato pubblico e di dato Open. Fin da subito ci si interroga sul come lavorare assieme ad altre iniziative simili nate in quei mesi, come, ad esempio, it.ckan.net.
Ecco una breve cronistoria, grazie ad alcuni collegamenti a thread della mailing-list che ritengo rilevanti. Ho volutamente escluso i raduni, dato che quelli fanno storia a parte, comunque per farsi un’idea sui raduni, basta partire dalla pagina del sito “Altri raduni: cosa abbiamo fatto”.
Il 24 marzo sarò a Torino per MERGE-it, assieme a tante altre comunità del mondo Open italiano e ad altri amici della comunità di Spaghetti Open Data.
Nel primo intervento della giornata - dalle 10 alle 10.30 - racconterò un pezzetto di storia di SOD (una versione più accessibile di quello che c’è qui). Cercherò di dare uno sguardo sulla comunità e sulla sua evoluzione, così anche chi non la conosce può farsi un’idea di cosa abbiamo fatto negli anni.
Nella fase di chiusura, inserirò qualche spunto per il 2018, su cui non anticipo nulla, spunti e riflessioni che emergono grazie al lavoro sul libro. Ho voglia di far emergere con maggior forza cosa spinge a partecipare ad attività (comunità?) come quella di SOD. Ho voglia di parlare di quello che spinge ognuno a sentirsi parte di qualcosa. Ho voglia di far capire, anche a chi non lo sta vivendo, quanto è importante contaminarsi e avere luoghi dove poterlo fare.
“cosa emerge dal modo in cui evolve la definizione nel tempo? Quali sono le differenze e le sfumature che si possono cogliere?”
Inizio a rispondere - almeno parzialmente - alla domanda dalla parte più semplice, osservando la concentrazione delle notizie lungo la linea temporale, tra il 2010 e il 2017.
Una breve premessa: i numeri delle notizie elencate sono molto bassi, si parla di un massimo di 8 per un anno, per cui le considerazioni che seguono non hanno alcuna valenza statistica, ma sono un’interpretazione personale di qualcosa che ho vissuto. Prendetele quindi per quello che sono.
Lungo la linea temporale ci sono un paio di momenti di maggior concentrazione di notizie relative al civic hacking:
Se invece si osservano i periodi con meno citazioni (il 2012 e da metà 2014 a metà 2015 e il 2016), mi vengono in mente altre cose da appuntarsi.
Il 2015 è stato l’anno principale di attività dell’associazione Digital Champions (che nasce nella seconda metà del 2014, per chiudere ad inizio 2016). Un anno che ha visto moltissime persone (che di fatto erano dei civic hackers) confluire nelle attività a supporto delle azioni di governo di quella fase storica. Riccardo Luna viene nominato Digital Champion per l’Italia a settembre 2014: questo titolo è una carica istituzionale voluta dalla Commissione Europea che ogni Stato membro nomina in autonomia. L’associazione diventa inevitabilmente un elemento fortemente connesso con la direzione intrapresa dall’agenda digitale governativa. Nel 2015, quindi, ritroviamo il termine “civic hacking” all’interno di alcuni eventi legati alle attività dell’associazione.
Nel giugno 2015 Franco Morelli (civic hacker, socio dell’associazione Digital Champions e una delle persone che partecipano alla comunità di Spaghetti Open Data) pubblica una presentazione in SlideShare dal titolo emblematico “Civic hacking in equilibrio”. La possiamo considerare un punto critico che rappresenta un momento di maturità, dove si evidenziano alcuni concetti in contrapposizione:
La mancanza di citazioni nel 2016 si potrebbe interpretare come una sorta di fase riflessiva: una risposta fisiologica alla stagione del 2015, caratterizzata dalla collaborazione e partecipazione ad alcune azioni nate dalle istituzioni, la fase dei Digital Champions.
Potremmo riconoscere quindi tre momenti:
Non è detto che la terza fase sia stata percepita in maniera esplicita: potrebbe essere stata vissuta come momento di stallo, individuale e di comunità, specie se ha avuto una sensazione di tradimento.
Il 2016 è anche l’anno del lancio ufficiale della scuola di tecnologie civiche (civic tech), con due diverse edizioni (maggio 2016 a Torino e novembre 2016 a Napoli): civic tech e civic hacking hanno ovviamente molto in comune, in futuro mi piacerebbe riflettere sul legame tra civic tech e civic hacking, ma per il momento mi concentrerò sul secondo.
A metà 2016 la situazione dell’emergenza a valle del terremoto crea le condizioni per la nascita del progetto TerremotoCentroItalia, che rappresenta un punto di svolta progettuale nel percorso evolutivo del termine, dopo quello concettuale evidenziato da Franco Morelli un anno prima.
Esiste una questione sintattica che fino ad ora non ho evidenziato: parlare di civic hacking è diverso che raccontare le storie sui civic hacker.
Infatti si può parlare dell’azione, del fare “civic hacking”, oppure si può scegliere di parlare degli eroi, delle persone, ovvero dei civic hacker.
Due approcci profondamente diversi, che comportano delle conseguenze nel tipo di presenza nei media (intervistare un civic hacker è più facile di raccontare un’azione di civc hacking). La scelta di concentrarsi di più sugli eroi del nostro tempo e meno sulle pratiche ha (forse) generato maggior interesse (più visite per le testate giornalistiche online) rispetto ad articoli focalizzati sulle pratiche, che avrebbero condotto a riflessioni più complesse destinate ad un pubblico assai più ristretto.
Ecco perché non ho incluso riferimenti alle citazioni di quelle notizie che parlavano solamente dei civic hacker (fatta eccezione per la chiamata alle armi di Matteo Tempestini di novembre 2016): quello che volevo evidenziare è cosa accade attorno all’azione, non tanto quello che può fare il singolo, spesso vittima suo malgrado del grande storytelling sull’innovazione di questi ultimi anni.
Completata l’analisi temporale, passiamo alla semantica: come viene spiegato il “civic hacking” nel corso degli anni?
La diffusione del termine “civic hacking” sembra vada di pari passo a quella di “Open Data”, anche se viene usato molto meno di frequente: le comunità principali che fanno proprie queste terminologie diventano praticamente le stesse.
Non si tratta solo di questo: pare che uno degli obiettivi del civic hacking sia direttamente collegato all’uso degli Open Data. Dalle definizioni del periodo 2010-2011 una delle finalità principali del civic hacking è aumentare la fruibilità e l’utilità degli Open Data pubblicati dalle amministrazioni, integrandoli e creando dei servizi a valore aggiunto al di sopra di essi.
Una linea di pensiero che si coniuga molto bene con le differenze di approccio tra i servizi progettati dalla visione dell’E-government e quella visione alternativa del “Government as a platform” condivisa da Tim O’Reilly a metà del 2009. Al posto di creare servizi digitali per i cittadini (E-government) che sono mal progettati e poco usati, che usano tecnologie vecchie che non pongono l’utente al centro perché figlie di progettazioni nate dall’alto al basso, nasce l’idea che lo Stato possa essere una piattaforma a disposizione della società. L’ente pubblico e lo Stato fa un passo indietro rispetto al potenziale presente là fuori, in pieno stile liberista.
Lo Stato non espone più servizi, ma dati: pubblica i dati nella loro versione più grezza e semplice possibile e lascia al mercato la creazione dei servizi a valore aggiunto per i cittadini. Lo Stato diventa un livello infrastrutturale che abilita nuovi attori che riutilizzano in maniera creativa quel famoso patrimonio informativo pubblico che il digitale è in grado di valorizzare come mai prima d’ora.
Ma esiste un grande ma.
Un elemento ben presente nelle citazioni presenti nel 2010 e via via assume meno enfasi nel corso degli anni. Un elemento con cui Franco Morelli apre le sue slide mostrate poco sopra.
Sto parlando del non dover chiedere a nessuno il permesso di fare qualcosa, quel famoso e dirompente “innovation without permission”, che si ritrova sempre meno più si avvicina al 2017, tranne qualche ripresa di fine 2015.
Riprendo la citazione di Catherine Bracy sul significato del civic hacking pubblicata nel post precedente: “L’hacking è una qualsiasi innovazione amatoriale su un sistema esistente, ed è un’attività profondamente democratica. Si tratta di pensiero critico. Si tratta di mettere in discussione il modo comune di fare le cose. È l’idea che si vede un problema, si lavora per sistemarlo, e non ci si lamenta soltanto.”
Quello che sembra emergere negli anni a cavallo del 2012-2015 è un percorso di avvicinamento e quasi di reclutamento dei civic hacker da parte delle istituzioni italiane, che iniziano a comprendere il potenziale di riuso di conoscenze e di capitale sociale di quelle comunità legate al mondo Open Data, anche grazie alle azioni correlate alla visione dell’Open Government.
La componente dirompente, quella davvero scomoda che è sempre fuori controllo, pare passare in secondo piano.
Se chiediamo innovazione solo a partire da dati che la PA sta già mettendo a disposizione e non partiamo invece da quelli scomodi e difficili che ancora non ci sono, diventa tutto un percorso guidato e ben delimitato quello che ci si trova davanti. Parrebbe quasi una corsa al ribasso per la creazione di servizi dal potenziale elevato al costo quasi zero, se pensassimo male.
Pur essendo consapevoli della scala totalmente diversa e del numero assai limitato degli attori coinvolti nel panorama italiano, mi domando se a livello internazionale ci sia stato un percorso simile.
Nell’agosto del 2015 Mark Headd, ex Chief Data Officer di Philadelphia ed oggi Innovation Specialist all’interno della mitica 18F, ha scritto un approfondimento dal titolo “The civic hacker hacked“.
Headd pone l’attenzione su quello che definisce la “gentrificazione dello spirito hacking“ all’interno del movimento civic hacking negli Stati Uniti, ponendosi delle domande aperte. Trae spunto da un gran bel pezzo di Bret Scott che approfondisce l’evoluzione e la riqualificazione della contro-cultura del movimento hacker delle origini e applica il medesimo ragionamento al civic hacking.
Nel fare questo contestualizza il civic hacking come una forma contemporanea di volontariato e di attivismo civico, al pari di potenziale bacino di partenza per l’assunzione di nuove persone ben motivate all’interno dell’apparato governativo.
There is much to be gained by building bridges between the world of civic hacking and government. There is a long history of volunteerism to help government in this country, of which civic hacking can be viewed as a contemporary extension. Engaged civic hackers can help build solutions that help governments deliver services more effectively, and increasingly the civic hacking community has been looked at as fertile ground for recruiting new government employees.
Se all’inizio l’azione sovversiva è inevitabile, quando l’attore istituzionale si accorge del potenziale e si appropria di certe dinamiche invitando direttamente all’azione quelle comunità, non è certo un male. Ma il grande ma rimane. Perché questo è solo un pezzetto di un quadro assai più ampio. Di qualcosa che dovrebbe rimanere, accettato sia dai civic hacker che dalle istituzioni.
Quella forma mentis sovversiva non deve essere soppressa, non deve passare in secondo piano e non deve essere interpretata come una posizione politica. Perché lo Stato e il suo ruolo va oltre (o almeno dovrebbe) la mera creazione del consenso di un determinato colore politico attivo in quel preciso momento storico.
Questa contaminazione e la sorta di appiattimento verso il basso dell’ideale sovversivo della cultura hacker pone questioni profonde.
But is there a risk that the civic hacking community will become gentrified? Has it already become so? Do civic hacking groups that work regularly and closely with government officials feel empowered to ask tough, direct (often uncomfortable) questions about data releases and procurement practices? Do groups that collaborate regularly with government feel that they have standing to hold public officials’ feet to the fire when needed?
How do we balance the relationship between civic hackers and governments in a way that can realize the potential benefits of “government as a platform” and that is also true to the subversive roots of civic hacking?
Come lavorare per mantenere entrambe le facce della medaglia?
L’esperimento dei Digital Champions del 2015 ci può raccontare molto di quello da non fare (probabilmente), ma contemporaneamente va sradicata l’idea che il civic hacking all’italiana sia lavoro gratuito che dovrebbe sopperire le croniche mancanze del pubblico.
Che ne dite?
]]>To address […] and realize future opportunities, a key lesson from these narratives must be taken to heart. Data is at best a tool—sometimes a blunt one—and tools are only as good as their operators. The open data movement must look not only beyond transparency as an end goal, but beyond any single constituency as operators. “How to open data” is not only a question for governments, and neither is “what to build with it” one for civic startups. New York City has pioneered some of the most impressive applications of data analytics, while BrightScope has opened up millions of rows of data. The Smart Chicago Collaborative, Philadelphia’s Chief Data Officer, and SmartProcure have all used data to advance policy reform. Civic hackers and journalists have played a critical role in making data more meaningful and available.
There are countless other examples—many detailed in this anthology—of unexpected open civic data operators from all facets of our society. In this way, open data has served to blur the lines between our public and private lives, to reconnect the consumer, citizen, and civil servant. When looking ahead, this may be part of open data’s greatest legacy: the emergence of a new kind of connective tissue that enables us to create governments of the people, by the people, that work in the 21st century.
Pur essendo stato scritto nel 2013, è un passaggio ancora molto attuale: anzi, forse è un elemento chiave che serve riprendere. Per noi (io ed Erika intendo) quel tessuto connettivo è andato ben oltre l’Open Data e ha preso le spoglie di quella pratica conosciuta come civic hacking.
Ma cosa diamine è davvero il civic hacking?
Avevo accennato qualcosa nel post precedente, citando un breve video della Sunlight Foundation: questa volta parliamo dell’intervento al TED di Catherine Bracy, “Why good hackers make good citizens“, datato settembre 2013.
Ho inserito la versione sottotitolata in italiano, così è più semplice da seguire. Estraggo alcune parti dalla trascrizione in italiano:
L’hacking è una qualsiasi innovazione amatoriale su un sistema esistente, ed è un’attività profondamente democratica.
Si tratta di pensiero critico. Si tratta di mettere in discussione il modo comune di fare le cose. È l’idea che si vede un problema, si lavora per sistemarlo, e non ci si lamenta soltanto.
[…]
Ma prima di farvi qualche esempio di quelli che sono strumenti di hacking civico, voglio mettere in chiaro che non dovete essere programmatori per essere hacker civici. Dovete solo credere di poter portare gli strumenti del 21esimo secolo per sostenere i problemi che affronta il governo.
Dall’intervento di Catherine Bracy potrebbe sembrare che queste cose accadano ovunque tranne che in Italia. Combattere questa sensazione è uno dei motivi per cui abbiamo scelto di scrivere il libro: che il civic hacking sia possibile solo all’estero è una leggenda metropolitana. Anche in Italia se ne fa e se ne è fatto molto (e se ne parla almeno dal 2010).
Ed ora la prima domanda: se è vero che si parla anche in Italia di civic hacking, come se ne parla e come se ne è parlato in questi anni?
Partiamo dalle ricerche correlate che Google propone quando cerchiamo “civic hacking” italia:
Ci sono tre gruppi semantici in questi 7 elementi:
Ma la domanda rimane ancora aperta: come si parla di civic hacking e come se ne è parlato in questi anni?
Non risponderemo subito: vogliamo condividere la raccolta che abbiamo curato (è un lavoro di content curation in effetti): una timeline navigabile delle pagine che si trovano con Google cercando “civic hacking” italia. Una raccolta dei risultati che si trovano nell’intervallo arbitrario 2010 - inizio 2017 (sul perché ho scelto proprio questo intervallo, magari ci ragiono in un altro post). Nella timeline abbiamo incluso solo quei risultati con accenni al significato di “civic hacking”, anche indiretti, non solamente la presenza del concetto “civic hacking”.
Una linea del tempo che permette di analizzare due cose:
Buona esplorazione!
A questo punto ci troviamo una nuova domanda a cui rispondere: cosa emerge dal modo in cui evolve la definizione nel tempo? Quali sono le differenze e le sfumature che si possono cogliere?
[Nota tecnica, per chi volesse saperlo: la timeline sfrutta Timeline.js, uno strumento sviluppato dal Northwestern University Knight Lab. Gli eventi sono stati caricati in un Google Spreadsheet, ma nel giro di qualche settimana vorrei condividere la versione che carica i dati direttamente da un file JSON.]
]]>Abbiamo scelto di rendere pubblico questo progetto al raduno di OpenDataFest, che si è svolto il 2 giugno a Caltanissetta, sia perché ci sembrava giusto lanciarlo nella nostra comunità di appartenenza, sia perché volevamo osservare dal vivo il tipo di accoglienza che avrebbe avuto la nostra proposta. E devo dire che l’accoglienza è stata davvero calorosa! Ecco un paio di tweet:
Breaking news: un libro sul civic hacking in Italia! Autori Erika e Matteo @dagoneye, la First Couple dell' #opendata italiano. #ODFest17 https://t.co/F5Mwxek20w
— Alberto Cottica (@alberto_cottica) 2 giugno 2017
A #ODFest17 il libro delle storie i civic hacking in italia, community & practies by @dagoneye &c. @spaghetti_folks https://t.co/QHDyiVORf8
— ilaria vitellio (@ilacopperfild) 2 giugno 2017
Abbiamo realizzato un sito ufficiale per il libro: è un buon punto di partenza per capire di cosa stiamo parlando e per restare aggiornati sul progetto, assieme all’hashtag #CivicHackingIT.
Prima di andare avanti, tre cosette da non dimenticare in merito al progetto:
Nel libro parleremo di:
Qui di seguito alcuni spunti per incuriosire un po’ :).
È qualcosa che abbiamo capito dopo aver deciso quali sarebbero stati i potenziali lettori e quale obiettivo ci stavamo dando nello scrivere questo libro.
Di sicuro le nostre motivazioni partono da esperienze diverse: da un lato io sento il bisogno di capire cosa abbiamo realizzato davvero negli anni scorsi attorno al tema Open Data, soprattutto a livello di pratiche, perché oggi siamo davvero in un momento di stallo per il movimento italiano.
Da tecnico mi rendo conto che spesso ci siamo troppo focalizzati sul livello tecnologico (dalle discussioni sull’importanza dei Linked Open Data alle questioni legati ai formati e ai modelli condivisi). Spesso abbiamo dimenticato che l’Open Data fosse solo un mezzo, non un fine, qualcosa di utile per affrontare qualcosa di ben più ampio, di più importante e di maggior rilevanza per le persone comuni.
— Cesare Gerbino (@CesareGerbino) 2 giugno 2017
Ci siamo resi conto che non volevamo scrivere un libro sugli Open Data, ma su qualcosa che li coinvolgesse indirettamente senza renderli l’argomento principale. Quando abbiamo allargato lo sguardo e capito che volevamo parlare di comunità, di progetti e di prototipi, degli attori e dei ruoli che ci sono nel campo da gioco che vedono gli Open Data la palla da calciare. Ci siamo accorti che volevamo inserire anche quello che è andato storto e quello che forse c’è di positivo e che non bisogna mai dimenticare: in tutto questo, il civic hacking ci è parso il collante naturale in grado di tenere tutto assieme.
Quante volte alla domanda “Ah, ma quindi stai lavorando?”, quante volte siamo stati in difficoltà nel rispondere al perché partecipare ad una comunità, risolvere problemi che in qualche modo ci interessano e potrebbero essere di interesse per molti altri, ma non se ne rendono conto, quante volte abbiamo fatto fatica a spiegare che tutto questo per noi non è lavorare. Significa qualcosa che si nasconde nel concetto stesso di civic hacking.
Quindi, cos’è in pratica il civic hacking? Non vogliamo dare una definizione vera e propria, che forse non esiste: per noi è qualcosa di riconducibile a questo:
Storie di italiani e italiane che collaborano per trovare soluzioni creative a sfide sociali concrete.
Qualcuno (la Sunlight Foundation) lo riassume così:
Sappiamo che il civic hacking esiste, ma ha bisogno di maggior attenzione: crediamo sia davvero un argomento che merita un filone tutto suo. Quindi, dopo aver capito che il libro avrebbe parlato di civic hacking, ci siamo detti: bene, di sicuro altri ne avranno parlato nel corso degli anni. Anche se recente, non è mica nato ieri.
Ci siamo sbagliati: ci siamo resi conto che in italiano non c’è nulla che approfondisca specificatamente il tema del civic hacking, anche se in Italia ci sono molti progetti e molte storie che meritano di essere conosciute e raccontate e che sono civic hacking per davvero. Raccontarle potrebbe stimolare una riflessione collettiva, specie per farle diventare delle buone pratiche.
Diamine, non serve citare solo le esperienze estere come se fossimo nel 2007. Non ce lo meritiamo.
Tranne qualche libro dove si accenna al civic hacking come capitolo a parte (penso ad esempio a Cambiamo tutto, libro scritto da Riccardo Luna, dove però l’attenzione è sui civic hackers), non è stato ancora un tema oggetto di una riflessione critica dal meritarsi un titolo vero e proprio. Vogliamo colmare questa mancanza, stimolando magari la nascita di un filone di approfondimento, perché no?
Come abbiamo scritto in civichacking.it, non vogliamo scrivere:
- un manuale;
- un memorandum;
- un’autobiografia;
- una cosa lunga e pallosa;
- un testo accademico;
- un vademecum per la PA.
Nello stesso tempo, dopo quasi 7 anni di storia della comunità di Spaghetti Open Data, si sente il bisogno di un cambio di passo. C’è una sorta di stallo per noi che abbiamo iniziato fin da subito, ma non per questo si deve mollare e abbandonare il campo. Non si possono ripetere esperimenti e modalità già vissute che non hanno portato i risultati sperati. Non è facile capire quale sia la strada da percorrere ora: l’occasione di riflessione che darà questo libro sarà utile, forse fondamentale, specie per stimolare un ricambio nelle persone che si riconoscono dei civic hacker.
Serve riflettere su come diventare resilienti e includere altri che vogliano mettersi in prima linea e cogliere la bellezza e la fatica di questo modo di essere, per lasciarsi guidare dalla curiosità di rompere le cose e capire come sono fatte, come funzionano e poi migliorarle. Magari scoprendo che funzionano con pezzetti diversi, grazie a ricombinazioni differenti.
#ODFest17 "Uno dei problemi è che ci abituiamo a noi stessi, la comunità ha bisogno anche di ricambio" @aborruso
— Spaghetti Open Data (@spaghetti_folks) 2 giugno 2017
Di certo non è ancora il momento di uscire di scena.
Anzi, rompere le scatole come singoli e come comunità non è mai stato tanto importante.
#ODFest17 "bisogna rompere le scatole in modo costruttivo, come comunità" @dagoneye
— Spaghetti Open Data (@spaghetti_folks) 2 giugno 2017
Abbiamo bisogno di (ri)dare un giusto ruolo alla tecnologia: non può essere guida e base di tutto, come non può essere accettata e adottata in maniera cieca ed entusiasta. Va usata in maniera consapevole, ponendosi sempre delle domande.
#ODFest17 "la tecnologia è funzionale, ma da soli facciamo ben poco. È necessario coltivare rapporti umani per creare cose nuove"
— Spaghetti Open Data (@spaghetti_folks) 2 giugno 2017
Matteo Tempestini nel novembre scorso ha rilanciato la necessità di discutere e riflettere proprio su questo tema:
Io voglio un paese dove chi sa usare le tecnologie mette questo sapere in reale condivisione con le amministrazioni, per le cause umanitarie, per chi si occupa di crisi. E voglio un paese di persone che attivamente si impegnano nel miglioramento delle cose tramite la tecnologia.
Io voglio un paese dove questo supporto diventa un processo continuo di contaminazione tra persone ed il mondo delle amministrazioni e associazioni.
Un processo che non porterà mai ad un governo perfetto, ma sicuramente sempre in continuo miglioramento. E soprattutto qualcosa di veramente partecipato, un paese dove il cittadino che sceglie di dare una mano effettivamente verifica in modo tangibile che può darla subito.
Tenendo conto di tutto questo, è tempo di raccogliere storie di Open Data, prototipi, comunità informali e modi di sfruttare le zone grigie (quelle strane possibilità che si creano a volte. Parafrasando Pareto, l’innovazione sta nel creare nessi nuovi tra cose note). Tutto questo per noi è civic hacking: non solo tecnologia, ma un modo per scardinare vecchie abitudini, un modo per riprendersi il proprio ruolo di cittadini, un modo per risolvere problemi.
Se vuoi inviarci un tuo contributo, ricordati di leggere le linee guida e scrivici pure: hai tempo fino al 31/7!
Se vuoi seguirci nel dipanarsi di questo lavoro, il modo più veloce è seguire #CivicHackingIT.
Volevo avere un’idea di quali fossero gli spazi di manovra per la discussione e il confronto, sia come cittadino che come comunità: in queste righe condivido quello che ho capito.
Ecco la versione Bignami, se si ha fretta:
dati.gov.it a volte sembra gestito come un sito test, non come un sito in produzione, non come un servizio pubblico. Il posizionamento del sito nella strategia della valorizzazione del patrimonio informativo pubblico italiano continua a cambiare, per questo o l’altro motivo.
Questo non aiuta a renderlo un elemento davvero utile per chi deve utilizzare gli Open Data. Non è ancora una fonte affidabile, specie per quel mondo imprenditoriale che fatica a digerire gli Open Data, ma potrebbe diventarlo a breve.
Non sono chiare le risorse (economiche, umane e di competenze) che ha a disposizione ogni anno e questo mette in dubbio la sua sostenibilità.
Esiste un dialogo costruttivo tra chi, nella società civile, chiede dettagli e sviluppi e chi sta gestendo il sito (Formez, AGID e squadra tecnica), mediato dal Team Digitale. Per questo il bicchiere è mezzo pieno, solo se siamo tutti consapevoli che deve diventare da oggi/domani un servizio pubblico.
Altrimenti sono solo Open Data [qui cito un concetto caro ad Andrea Borruso]
Gli addetti ai lavori e i cittadini attivi dovrebbero chiedere sviluppi e partecipare, facendo emergere quegli elementi critici che minano molti degli elementi positivi (come i cicli di webinar, ad esempio, fondamentali per creare cultura sul tema). I nuovi canali gestiti dal Team Digitale sono a disposizione e facilitano il confronto: serve esserci e farsi sentire, come cittadini prima di tutto.
Purtroppo ricordo bene il giorno del lancio di dati.gov.it, quel novembre 2011 al ministero dell’innovazione, perché ero presente: mi dispiace che dopo tutti questi anni siamo ancora qui a parlare di elementi che non solo dovrebbero essere assodati, ma cristallini.
Ci sono tre questioni principali:
Perché ne parlo ora?
Perché il 7 marzo il portale è stato aggiornato, sia nel profilo tecnico che nel design, ma soprattutto è stata riattivata la funzionalità di aggregazione dei dati (in gergo si chiama harvesting).
Ah, giusto: per chi non lo sapesse infatti, dati.gov.it viveva in uno stato di mancato aggiornamento del catalogo degli Open Data che durava fin da fine settembre 2015.
Sì, avete letto bene. Pur essendo “il catalogo nazionale dei metadati relativi ai dati rilasciati in formato aperto dalle pubbliche amministrazioni italiane.” (definizione tratta da dati.gov.it stesso), il catalogo mostrato fino a febbraio 2017 era lo stesso mostrato a fine settembre 2015. (se non è esatto, correggetemi pure, mi piacerebbe aver preso un abbaglio)
Ma ci torniamo nel secondo punto, fidatevi.
Perché se qualche dettaglio può essere risolto facilmente con segnalazioni dirette, come avevo fatto nel caso del link errato del flusso RSS, altri elementi sono più complicati di così.
@DatiGovIT il flusso #RSS https://t.co/ACCd4EHnmR contiene solo alcuni elementi del 2011 e del 2012 invece di https://t.co/2zCIEDQgtm #Bug
— Matteo Brunati (@dagoneye) March 15, 2017
Nel giro di qualche giorno dal lancio del 7 marzo, sono stati pubblicati diversi rilanci, che partivano dal comunicato stampa ufficiale.
Qualcuno ne ha scritto riprendendo solo il lancio stampa, mentre gli amici dell’associazione Ondata ne hanno dato una lettura più critica fin da subito, con proposte e segnalazioni molto costruttive.
Il punto principale che mi aveva amareggiato era questo:
Licenze
Un portale dei dati aperti dovrebbe contenere soltanto dati con licenze aperte, mentre attualmente ci sono dataset con clausola “Non commerciale”. A nostro giudizio questi dati andrebbero rimossi dal portale, a meno che non vengano rilasciati sotto licenze open dai rispettivi titolari.
Questo commento di gruppo è stato condiviso come discussione in lista SOD ma è stato pubblicato anche nel nuovo forum pubblico sui dati gestito dal Team Digitale.
E qui ha creato una prima reazione positiva: il Team Digitale e tutti gli interessati hanno capito il valore del commento, critico ma costruttivo e hanno deciso che serviva un luogo nuovo per gestire questo tipo di scambio tra le parti.
Lo stimolo ha aiutato a rendere ufficiali le segnalazioni su GitHub nel repo dedicato a datigovit come luogo e come strumento deputati alla gestione di queste problematiche. Punto sicuramente a favore della nuova gestione del Team Digitale.
A quel punto, ho indossato il cappello da cittadino attivo e ho dato una mano, anche perché conosco molte delle persone dietro dati.gov.it e non volevo essere frainteso, pur essendo un po’ deluso dal modo e dalla gestione di dati.gov.it avuta nel corso degli anni.
Ho preso a cuore la questione licenze e ho pubblicato questa issue:
Pur avendo aspettato un mese circa (dal 10 marzo al 5 aprile), il bug dato dalla presenza di dati non Open Data nel portale ufficiale degli Open Data non era ancora stato gestito. Dopo la segnalazione degli amici di OnData, ho deciso di attivarmi personalmente, almeno per il Veneto (grazie anche alla pazienza di Gigi Cogo) - una delle due fonti che aveva inserito licenze errate ad alcuni dataset che poi venivano visualizzati in dati.gov.it come Open Data.
Un bug è un bug: significa che lo devi risolvere il prima possibile, anche perché altrimenti si continua ad alimentare l’idea sbagliata che Open Data != riuso commerciale (!= significa diverso).
Nel 2017 non possiamo tollerare ancora errori del genere.
Perché se si continua a gestire questo elemento cardine dell’ecosistema Open Data italiano (sto parlando di dati.gov.it) come è stato fatto nel passato, l’Open Data non sarà mai infrastruttura e non avrà mai pari dignità di un servizio di pubblica utilità. Rimarrà un hobby da attivisti o una scusa per qualche lavoro di consulenza per qualche no profit o una piccola squadra di professionisti.
Avremo perso l’occasione per creare economia e posti di lavoro: tranne qualche rara eccezione, non si può parlare di un vero impatto economico sulla scala nazionale dovuto agli Open Data, anche per questi motivi probabilmente. Ma non solo.
Riprendiamo il mancato aggiornamento dei dati presenti in dati.gov.it da fine settembre 2015 ai primi di marzo 2017, che pochi hanno ripreso nei media, purtroppo.
L’immagine che si vede qui sopra è l’istantanea del 15 ottobre 2015 della home page di dati.gov.it (via archive.org), mentre quella qui sotto mostra l’istantanea del 28 gennaio 2017 (sempre via archive.org).
Non è una bella storia, questa.
Ecco perché subito dopo il lancio del nuovo design del sito, sono stato molto deluso. Pur avendo avuto un aggiornamento importante, il punto di riferimento istituzionale continua a trascurare dettagli fondamentali, che mettono in crisi tutto l’ecosistema potenziale del riuso degli Open Data.
Ne minano la credibilità e ne bloccano il potenziale.
Ho capito che scriverne non sarebbe bastato, specie perché sarebbe stato interpretato come voglia di fare polemica e basta. Ma questo stato di cose ha bisogno di essere compreso, ha bisogno di una maggior consapevolezza diffusa. Soltanto così, possiamo chiedere e pretendere un cambio di rotta nella gestione.
I primi giorni di aprile mi sono imbattuto in quest’infografica:
EU = Peace in Europe
— ian bremmer (@ianbremmer) 27 marzo 2017
Still, was trending that way already.
Excepting a couple World Wars. pic.twitter.com/ejkezdHf2p
Ho pensato fosse molto chiara per esprimere quello che serviva, così ho rielaborato l’idea e realizzato questo schema:
Dopo aver chiesto feedback ad alcuni amici, ci siamo resi conto che alcune informazioni non risultavano molto chiare: a quel punto ci hanno messo le mani direttamente loro (avevo pubblicato i sorgenti in GitHub) e il risultato finale del lavoro collettivo è stato questo:
La parte in rosso identifica l’intervallo temporale in cui il portale dati.gov.it non è stato aggiornato.
Queste immagini e il sorgente (ho usato Inkscape) sono pubblicati e condivisi in un repository Github all’interno di Spaghetti Open Data: siete liberi di usarli come meglio credete.
L’ultimo aggiornamento del sito dati.gov.it dei primi di giugno 2015 me lo ricordo bene, perché lo avevamo pure inserito tra gli elementi positivi della terza edizione dell’Open Data Barometer (ero peer reviewer di quella edizione). Detto questo, non posso considerarla certo una vittoria, quella di aver sistemato finalmente l’aggregazione, rimasta in uno stato imbarazzante per tutto quel tempo. Questa mancanza ha creato sicuramente un danno all’intero ecosistema degli Open Data.
Cosa ancor più grave: non c’era in tutto quel periodo nessun banner e nessun avvertimento che aiutasse il visitatore di dati.gov.it a capire la situazione.
Posso solo immaginare quello che avranno pensato sugli Open Data quei visitatori e quelle aziende che volevano capirne di più, avendo intuito il potenziale, ma visto quel reale rappresentato dai dati presenti su dati.gov.it molto deludente.
Ecco il senso di lavorare all’infografica: è in grado di comunicare con maggior intensità un problema che non deve più ripresentarsi.
Quello che vorrei è questo: se vengono rilevati problemi di aggiornamento e di aggregazione dei dati, si deve avvertire la persona che naviga nel sito con una qualche forma di notifica. Deve saperlo, così può cercare quel dato direttamente alla fonte, dove probabilmente sarà aggiornato. Il sito dati.gov.it non è un sito test e non sta girando in un ambiente di sviluppo.
I consigli e le domande poste in merito al processo di aggregazione e aggiornamento dei dati che sono state pubblicate come segnalazioni in GitHub rientrano in questa volontà di miglioramento, così come la necessità di avere delle date pubbliche e condivise in merito all’harvesting, per capire quando è stato aggiornato il catalogo l’ultima volta in maniera certa.
Date le premesse, potrebbe essere il minimo per ricostruire la fiducia nello strumento.
E qui torniamo a parlare di posizionamento.
Perché se nella issue aperta sul tema che ho citato poco sopra, avevo chiesto:
Se invece, come si è detto da ormai un anno, dati.gov.it dovrebbe diventare il catalogo dei dati pubblici sia Open che non, utile forse ad aggregare la domanda di apertura di dati non ancora disponibili come Open Data, è necessario riposizionare il brand, integrare e aggiornare le descrizioni/about/etc.. presenti già oggi nel sito stesso. E magari pensare a sezioni dedicati per evitare inutili confusioni.
In un primo momento sembra che dati.gov.it ospiti davvero solo Open Gov Data, poi si scopre che nel nuovo piano triennale, nella sezione sugli Open Data si dice:
AgID, in collaborazione con il Team digitale, provvederà all’evoluzione dell’attuale catalogo dati.gov.it come spazio dedicato a:
- documentare sia dati aperti sia basi di dati delle PA;
Il catalogo inoltre rappresenterà l’unico punto di accesso nazionale per l’interazione con analoghe iniziative europee in materia di dati.
Il progetto di sviluppo di dati.gov.it sarà reso aperto, disponibile su repository pubblico al fine di fornire una piattaforma di default pronta per il riuso da parte delle PA.
Il grassetto è mio.
“documentare sia dati aperti sia basi di dati delle PA” significa che in qualche modo si desidera continuare la strategia introdotta un anno e rotti fa a parole. dati.gov.it conterrà sia gli Open Data che le basi di dati della PA. A questo punto è ufficiale.
Anche se non mi è del tutto chiaro.
Su questo aggiungo un’altra perplessità: siamo sicuri che non ci saranno anche Open Community Data oltre a Open Government Data? Non lo dico a caso, perché in realtà è già così: nel sito dati.gov.it ci sono i dati creati e gestiti dal progetto di civic hacking TerremotoCentroItalia
Ovviamente è importante aver riconosciuto l’importanza di quel progetto e di quei dati: lo è altrettanto costruire quella cornice coerente che faccia da riferimento per il cittadino, per l’azienda e per tutti quelli che non conoscono il mondo degli Open Data, documentando e spiegando le differenze e i motivi della presenza di quei dati oggi, di altri un domani.
Quei dati sono Open Community Data, infatti.
So che l’inserimento di quei dati dipende dall’aver aggregato i dati di regione Toscana, che a sua volta aveva aggiunto TerremotoCentroItalia nelle organizzazioni censite, come raccontava tempo fa anche Matteo Tempestini, che riprendo:
Ma soprattutto significa che un progetto di iniziativa civica può produrre dati utili alle pubbliche amministrazioni e che le pubbliche amministrazioni possono aggregare dati istituzionali assieme ad altri dati provenienti da fonti diverse (cittadini, associazioni, aziende).
Pensate se tutte le “entità coinvolte nel terremoto” producessero dati e informazioni e tutte queste informazioni fossero aggregate da pubbliche amministrazioni (regioni, comuni, governo) quanto sapremmo tutti di più su questa vicenda.
Questo è il valore di questa bell’operazione di sinergia tra istituzioni e un’esperienza civica, che ci sta insegnando moltissimo anche sotto questi aspetti.
In conclusione due consigli non richiesti, che condividerò nelle sedi opportune a questo punto (ci sono le segnalazioni su GitHub e il nuovo forum sul piano triennale, oltre al forum sui dati lanciato fin dall’inizio del 2017 dal Team Digitale):
Prendo spunto da quell’hackathon per aggregare alcune idee sulla necessità di ripensare lo strumento hackathon nel riuso della PSI (Public Sector Information). Forse è il caso di porsi alcune domande. In un certo senso sono temi che avevo già affrontato in passato, ma lateralmente e in maniera più astratta:
Nessuna delle riflessioni qui sopra si era soffermata sullo strumento hackathon in quanto tale, specie perché in quegli anni forse era troppo presto per metterlo in discussione e perché io stesso ne avevo seguiti pochi o nessuno, magari.
Le domande che mi passano per la testa sono quelle inserite in apertura del post e sono ovviamente correlate al percorso che stiamo facendo con l’Open Government in questi anni anche in Italia.
Sono tutte domande aperte: non ho risposte, ma ho solo sensazioni e fatti sparsi, che metto sul piatto.
Vediamo se ha senso questo ragionamento, poco più di un flusso di coscienza. Magari torna utile anche per i civic hackathon che facciamo nella comunità di Spaghetti Open Data, che soffrono assai meno degli hype di altri contenitori visto che sono costruiti sul consenso della comunità.
Le foto e i video che Lorenzo Perone ha condiviso su Flickr parlano da sole: l’esperienza è stata molto coinvolgente per il clima che siamo riusciti a creare, tutti assieme. Perfino grazie ad amici che sono apparsi come meteore, senza preavviso :)
Era pure il weekend prima di Natale, tipicamente uno dei periodi dell’anno in cui siamo tutti presi da altro, certo non dedicare un intero fine settimana a cose del genere, no?
La partecipazione è stata elevata e lo si capiva anche dalle iscrizioni arrivate durante le settimane precedenti all’evento: io non me l’aspettavo di certo all’inizio.
Ilaria Vitellio, vice-presidente di OnData e compagna di viaggio assieme a tanti altri amici sui temi Open Data e partecipazione per il Forum OGP, ha scritto una gran bella sintesi appena prima di Natale, da leggere tutta d’un fiato.
-> Apprendere dall’esperienza, suggerimenti per un hackathon
Milano@work è l’hackathon organizzato dal Dipartimento di Architettura e Studi Urbani del Politecnico di Milano con il patrocinio del Comune di Milano e il supporto dell’Associazione onData* nel quadro del progetto europeo OpenForCitizens (www.open4citizens.eu).
Alla maratona, che si è svolta il 17 e 18 dicembre, hanno partecipato 66 giovani (se ne erano iscritti oltre 120) che si sono organizzati in 11 Team di sviluppo e lavorato per 25 ore consecutive. Continuamente supportati dai mentor di onData, i partecipanti hanno dialogato con funzionari della pubblica amministrazione e cittadini che, sulla base alle sfide poste all’hackathon, esprimevano problemi e suggerimenti. Tre sfide a cui rispondere che articolano problemi relativi ai disagi quotidiani che i cittadini vivono in una “Milano che cambia”.
[…]
Proverò qui a riassumere il percorso di questa esperienza, organizzata in un tempo relativamente ristretto e da attori molto diversi (Università, Istituzioni, Associazioni) impegnati in una coprogettazione mobilitata dallo stesso orizzonte di risultato: non solo rispondere alle sfide poste, ma anche far emergere la domanda di dati aperti in grado di risolvere alcuni problemi urbani. L’intento è qui anche di restituire riferimenti utili a chi si accinge ad organizzare un hackathon con l’intenzione di non sfruttare la creatività e la competenza diffusa per propri fini e di incoraggiare la cultura dell’openness.
Non ripeto le ottime osservazioni di Ilaria, tutti punti fondamentali quelli lanciati nella seconda parte del post, li ripeto solo come elenco puntato, magari potrebbero tornarmi utili poi:
Da non dimenticare che l’hackathon era solo un momento di un percorso più ampio, in questo caso specifico:
Milano@work interviene a valle di un processo di ascolto dei cittadini sulle problematiche relative ai cantieri in città. Un processo attivato dal Politecnico di Milano nell’ambito del progetto europeo OpenForCitizens. Ciò ha permesso non solo di definire le sfide sottoposte ai partecipanti, accompagnate anche da una varietà di bisogni dei cittadini (informazione, partecipazione, monitoraggio, etc.), ma anche l’incontro durante l’evento tra questi, i funzionari amministrativi e gli sviluppatori.
L’evento si è trasformato in un campo di incontro, di interazione tra competenze e abilità circoscritte in mondi generalmente lontani, generando condivisione di temi, problemi e opportunità.
E queste sono tutte cose da segnarsi: la presenza infatti di cittadini durante tutto l’evento, che andavano a stimolare le varie squadre, riportando i partecipanti a ragionare sull’impatto reale di quello a cui stavano lavorando (e non solo sui deliri potenziali di onnipotenza tecnologica di uno o dell’altro) è sicuramente una buona pratica da mantenere.
Nella foto qui sopra ad esempio, mi trovavo in una delle squadre con un cittadino che poneva il giusto senso delle priorità alla squadra, raccontando il proprio punto di vista sul lavoro che stavano facendo. Un aspetto da includere sicuramente nella buona progettazione dei civic hackathon.
In ultimo, il modello adottato da Milano@work prevedeva che i vincitori dovessero poi completare lo sviluppo del prototipo entro i 60 giorni successivi all’evento, inserendo anche il dettaglio di spesa del premio (8000€).
Una metodologia molto simile a quella che avevo adottato a suo tempo per un altro hackathon all’interno di un progetto europeo, che è un ottimo compromesso per rendere l’hackathon un tassello di qualcosa di più sostenibile e maturo nel tempo.
Una delle mie intuizioni che vorrei testare prima o poi è collegare la challenge/contest della tipica durata di 4-6 mesi con alcuni hackathon a tappe da inserire durante il percorso per rafforzare un lavoro che è in corso di realizzazione favorendo la contaminazione tra le squadra probabilmente diffuse nel territorio. Questo potrebbe essere un modello di riferimento da testare su una determinata scala (meglio nazionale, ma anche la grande città potrebbe beneficiarne) in un dato intervallo di tempo.
Un altro elemento vincente è quello di sfruttare l’hackathon come fucina di selezione e di contaminazione, senza aspettarsi un risultato davvero usabile alla fine del weekend, ma l’inizio di un piccolo progetto che possa rispondere maggiormente alle sfide poste all’inizio ai partecipanti.
Qualcosa che rende l’hackathon molto più affine alle pratiche di Open Innovation forse.
Alcuni vincoli dell’evento in questione dipendevano dalla cornice in cui ci si muoveva, il progetto europeo.
E se potessimo cambiare il punto di vista, allargandolo?
Dal punto di vista del cittadino oggi l’hacking che arriva dal basso, dal cittadino, è lo stesso urban hacking che troviamo in questa vecchia presentazione di Gigi Cogo:
Può essere facilitato grazie alle piattaforme online, ma dipende dall’educazione civica e dalla sostenibilità del suo apporto alla dimensione cittadina nel tempo. Da quei famosi costi di partecipazione che anche Ilaria accennava nel post pubblicato su ondata.it.
E’ qualcosa che va gestito e incluso nei processi e nella governance della città. Ma tutto parte dai dati, quelli che ci sono e si trovano e quelli che invece mancano: due facce della stessa moneta.
Perché il dominio di conoscenza e la facilità di accesso ai dati che parlano di trasformazioni urbane è una delle barriere all’ingresso per giocare.
Cosa sono i cantieri per il cittadino? Cosa significa la parola cantiere all’interno della macchina amministrativa del Comune? Cosa si intende per trasformazione urbana?
C’è un problema di mappatura condivisa, una questione semantica relativa ai dati, spesso considerati solo come mero pezzetto tecnico da cui partire. Una mappatura comprensibile e riusabile per ridurre la barriera all’ingresso nella comprensione del mondo di cui si parla potrebbe essere un obiettivo vero e proprio di un hackathon che aiuti la comprensione della città stessa.
Ne parlo perché nelle settimane precedenti l’evento ho documentato al meglio i dati che venivano messi a disposizione, assieme a Marco Montanari in una guida introduttiva che raccoglieva una sorta di legenda dei dati iniziali (quali metadati c’erano, la numerosità dei dati per tipologia, etc.) Visto il tema (si parlava di cantieri e delle trasformazioni urbane) il dato da cui partire erano le pratiche edilizie.
Già solo capire esattamente la tipologia del dato e del dominio non era banale, ma soprattutto serviva del tempo per approfondirlo.
La conseguenza diretta è che le varie squadre partecipanti all’hackathon hanno considerato quei dati leggendoli attraverso le lenti degli assi informativi più semplici da trattare. Ovvero indirizzi che indicano luoghi, date che possono diventare dettagli di una timeline interattiva, e via così.
I luoghi diventano coordinate geografiche da visualizzare naturalmente su mappa e altri campi semplici filtri per navigare i dati. Tutte soluzioni facilitate dalla tecnologia che sono veloci da adottare e che toccano davvero poco la gestione della trasformazione urbana che impatta maggiormente su processi e attori spesso poco conosciuti piuttosto che sui dati, che sono solo uno dei risultati di quella complessità dietro alla gestione e alla vita della città che viene persa per strada e messa sotto il tappeto.
Come faccio a ragionare sul problema delle trasformazioni urbane se nessuno mi racconta e mi mostra in maniera comprensibile come la città oggi gestisce e crea tutti i dati attorno a quel preciso tema?
Sono il solo a pensarlo?
Cercando su Google la combinazione hackathon + urbanism, sono finito in questo post del 2012 che trovo particolarmente utile leggere, compresi i commenti. Parzialmente rafforza ancora di più i miei dubbi iniziali: (i grassetti sono sempre miei)
-> On Hackathons and Solutionism
The inherent ‘solutionism’ of hackathons and app contests has contributed in part to a rising wave of criticism against the model.
[…]
One idea that seems to be gaining currency is to spend less time developing new applications that never seem to reach scale, and more time building communities around certain data sets.
[…]
Bringing together diverse actors — including private sector, public sector, activists and technologists — to make sure that there is a purpose behind the data is the model of the “datapalooza,” which White House CTO Todd Park has been evangelizing for the past couple years. The starting assumption isn’t that there is an app or gadget that can fix complex social problems, but rather that there is value in bringing together diverse actors to contemplate the stories and social issues that lie out of plain sight in large datasets.
Dai commenti merita citare Tom Steinberg (CEO di Mysociety.org):
Somewhere along the line the true and important story that ‘you can now produce relatively amazing things in just a few hours’ has morphed into ‘we can actually solve all our problems with code hacked in a weekend’. I don’t know who bent the message, but it’s a real shame it happened.
Ma quello davvero tosto è l’ultimo presente nella pagina:
One approach that I’ve advocated before is the concept of Cities creating microtasking portals and innovation bounties.
As I mentioned in my comment to Matthew Hall’s post titled “Can Crowdfunding Kickstart Urbanism?“:
“They should combine civic crowdfunding with micro-tasking. That is, cities have big IT backlogs and for microprojects of less than 5-10 thousand dollars, city governments should put it out for microtasking minus the expensive RFP/contractor process.
This will seed the civic crowdfunding marketplace – while saving taxpayer money, engaging citizens, spurring economic activity, and growing the local tech community, all at the same time.
Another idea is to have an innovation bounty.
That is, if citizens find some innovation based on the Open Data published by the city, 5% of the savings realized by that insight/innovation goes back to the citizen/business who thunk up the idear and implemented a working prototype.
And interested citizens and local businesses can kick in some additional funds for both micro-tasks and bounties.
And unlike Kickstarter, citizens and local businesses can nominate their own micro tasks and bounties as well – so its not just people who want to do projects pitching.”
Il fenomeno hackathon che si è diffuso molto anche in Italia in questi ultimi anni è stato spesso orientato al soluzionismo veloce e inconsapevole che riduce la complessità del mondo in cui viviamo.
Quelle proposte inserite nel commento qui sopra sono molto interessanti: microtask già a calendario dal Comune frutto di processi complessi inseriti all’interno della governance cittadina o premialità come l’innovation bounty sono effettivamente idee intriganti che non rimuovono quella complessità che il soluzionismo estremo del modello hackathon invece ha spesso perso per strada.
Sarà che la complessità è uno dei mondi di riferimento quando si parla di civic tech, e ne abbiamo parlato anche durante la scuola di Tecnologie Civiche di novembre 2016: sicuramente un tassello da non dimenticare mai, al di là dei dettagli implementativi dell’hackathon.
Altro spunto, più recente, arriva da “Hacking the Hackathon“:
At Open Austin, we thought we could make a better hackathon, and with the help of city officials and local volunteers, we set out to try something new. For the 2015 Civic Hack Summit, instead of asking volunteers to develop an app from start to finish, we asked them to identify community needs and build plans around those needs for a long-term project. Many of the plans were for apps and websites, but volunteers also identified the need for policy research and user-interface standards.
Sono tutti elementi di quel modo di dialogare con le istituzioni parte di quel mantra “Government as a Platform“ lanciato da O’Reilly, che ha un suo senso tutto sommato.
Stando attenti al giusto modello da adottare ovviamente, come emerge da “Government as a platform, or a platform for government? Which are we getting?“:
Where a progressive convergence on open standards (standard business rules, open architecture) constitutes the DNA for digitally enabled GaaP, a primary focus on open source (bespoke technology, closed architecture) constitutes the DNA for PfG.
E il commento all’articolo che cade a fagiolo:
However his observation is right “….the openness promised by digital and GaaP never makes it beyond the level of technology to anything more democratically substantive – and the possibility for happier, really cost-effective public service is lost for another generation.”
Digitisation is not about technology it is about supporting people (civil servants and public) to efficiently achieving the desired outcome.
It is all about people something GDS and other IT driven people have never really recognised and “user needs” is not enough to truly understand. Next generation software now addresses this in totality recognising real need for both customisation and constant change at the frontline where people work. But Government have virtually no research capability to understand and so ”technology” complexity still rules servicing many vested interest internal and external meanwhile public pay the price…..
Policy, standard condivisi e tecnologie open che però devono includere in maniera diversa le persone, che devono tornare al centro del processo. Tutte dimensioni molto politiche spesso semplici attori di secondo piano, che invece potrebbero diventare obiettivi di primo piano dei contest e di civic hackathon, specie in quei momenti in cui certe filiere ipotizzate non riescono ad emergere in maniera naturale.
Come sta succedendo in Italia, data la complessità e la frammentazione della governance del livello degli Open Data tra governo centrale e livelli amministrativi territoriali.
Uno degli elementi che potrebbero diventare oggetto di un hackathon orientato a costruire uno standard implementativo più condiviso è lo schema pubblicato a pagina 26 delle Linee Guida per la Valorizzazione del Patrimonio Informativo Pubblico 2016 da AGID:
Come tradurlo in maniera più operativa per una PA, magari partendo da esperienze di modellazione condivisa che lavorano già oggi su aggregazioni di comuni con un approccio bottom-up che potrebbe essere complementare a quello abbozzato da AGID in quello schema? (parlo delle oltre 200 classi di oggetto modellate dal progetto ComunWeb qui in Trentino)
Qualcosa che nello schema GaaP mostrato sopra corrisponda davvero alla voce “Active co-creation of services” abbinata a degli open standard (intesi come implementazioni degli standard del W3C, ad esempio).
Il punto di vista della Web Foundation nel commento “Open Data Day – Hackathons are the spark, but citizens are the slow burning flame“ dove riprende gli Open Data Day e parla della deriva rischiosa del soluzionismo presente negli hackathon:
Hackathons support the Web Foundation’s principles of establishing the open Web and open data as a public good and a basic right. Also, hackathons may be getting established in “developed” countries, but in many developing countries, the concept of getting access to government data, coupled with resource-constrained governments, provides fertile ground for technically trained, creative individuals to see data afresh and what can be done with it.
For example, while not a hackathon, at our regional agenda setting workshop in Jakarta earlier this month, we had a break-out session of research and innovation ideas. The ideas put forward included a transport app for Jakarta public transport, mechanisms for parents to access and discuss school performance data, and automating primary health centre data flows to central government.
Obviously, there is much more to open data than hackathons. Writers like David Sasakiand Evgeny Morozov make key arguments as to why hackathons should not take on a “solutionist mindset”. At the Web Foundation, we believe in-depth and sustained research, innovation, training and engagement are part of the answer, such as through our Open Data Barometer, Open Data Research Network and Open Data in Developing Countries research programme. We are working with partners to deliver training programmes in open data.
The key to open data is long-term, lasting change. Hackathons are the spark, but government commitment, proactive “open data intermediaries” (like civil society organizations, journalists and other champions) and citizens, are the slow burning flame.
We believe this is integral to our Right to Data approach and our mission to achieve increasingly transparent, accountable and participatory governance.
Mi ritrovo perfettamente: l’hackathon quindi come potenziale strumento per ripensare le policy, accelerare e attivare elementi di quella filiera dell’ecosistema degli Open Data che per qualche motivo tardano a prendere un ruolo attivo, sia su scala nazionale che su quella locale.
Ecco un obiettivo interessante da coltivare.
Quello degli “Open Data intermediares” è un ruolo graficamente ben rappresentato nel post “Why open data needs to be “Citizen literate”
A citizen literate data infomediary isn’t one that just knows how to use data — its one that understands how citizens can effectively use data to be part of a decision making process.
Chiudo con un’ultima suggestione: la gestione dei rifugiati in Europa, un tema complesso e profondo.
Pur non essendo direttamente collegato al riuso degli Open Data e della PSI, lo spunto di trasformazione dello strumento hackathon presente in questo post “HACKATHONS AND REFUGEES: WE CAN DO BETTER.“, è simile a quei micro-tasks citati poco sopra.
Lo riprendo qui:
Workathons: the idea that Might Just Work
In an average hackathon we might get 15-20 highly trained individuals ready and willing to provide their time and skills towards fixing a problem. In a nutshell, that’s what we’re asking people to do: throw design, code and copy at a problem until it’s fixed. So, instead of throwing them into a black hackathon hole of sexy-sounding zombie projects, how about we ask earnest hopefuls to do what they do best — and get paid for it?
Here’s my idea: an event where participants complete actual jobs for companies, and all the earnings go to organisations helping refugees. Do what you’re good at to generate money for real solutions to real problems.
Non lo so, ma ci sono ottime idee da testare: il riuso degli Open Data da mero obiettivo che non riusciamo a raggiungere possono diventare un elemento di un mondo ben più ampio. Gli stimoli per provare ad affrontare quella complessità che ci circonda in maniera diversa non mancano di certo. Il riuso dei dati non dovrebbe essere l’obiettivo, ma solo un mezzo per un fine ben più alto.
Comprendere il mondo che ci è attorno per poterlo migliorare o semplicemente capire, ad esempio.
Alla fine ho la sensazione che la comunità di Open Data Sicilia stia toccando e affrontando molti degli spunti aggregati in questo post, in maniera forse inconsapevole. La storia e la contaminazione che stanno portando avanti gli potrebbe permettere di diventare un modello da cui partire.
Forse non è un caso che ci sia anche Palermo nella collaborazione che sta avviando Diego Piacentini con il Team Digitale e diversi comuni italiani, con spunti e azioni che riprendono l’importanza degli standard e delle comunità con cui dialogare.
]]>Community – Giovanni Bajo, Relazione Sviluppatori: Cambiamento del modo in cui lavora la Pubblica Amministrazione, utilizzando standard e software aperti, e realizzando API documentate pubblicamente, non con un linguaggio giuridico ma tecnico, intorno alle quali poter coinvolgere una community di sviluppatori che crei innovazione.
Panel: Data as a commons: i dati come strumento di governance collaborativa delle città
Gli Open Data rappresentano uno snodo cruciale per mettere in atto i principi dell’Open Government e stimolare modelli collaborativi tra istituzioni e comunità locali, finalizzati non solo al controllo dell’operato della P.A. ma anche allo sviluppo di nuovi servizi e applicazioni che integrino e potenzino quelli già offerti dalle istituzioni pubbliche secondo la logica della co-production. Ma cosa sono concretamente gli Open Data? Quale valore possono generare per la Città? Ne discuteremo insieme durante il panel con alcuni tra i maggiori esperti e attivisti sul tema dell’Open Data in Italia.
Modera: Davide Arcidiacono (Università Cattolica del Sacro Cuore)
Con: Matteo Brunati (Community Manager Spazio Dati e Italian Correspondent per E-PSI Platform), Michele D’Alena (Digital Innovation Advisor), Gianni Dominici (Forum PA), Federico Morando (Nexa-Politecnico di Torino e fondatore di Synapta), Maurizio Napolitano (Digital Commons Lab-Fondazione Bruno Kessler-Trento)
E’ una tavola rotonda dove parleremo di molti temi che mi sono cari: Open Data, smart cities, beni comuni e Open Government. Alcuni li avevo approfonditi in un mio vecchio post di settembre 2012, “Attivare le comunità intelligenti: ovvero ripartire dal senso civico“.
Quel senso civico oggi come non mai dovrebbe tornare alla ribalta, perché alla base della visione stessa della città e della cittadinanza.
Un senso civico che dovrebbe aiutarci a riappropriarci delle nostre città, per non rischiare di perderle nascondendoci dietro alle innovazioni tecnologiche, spesso incomprese a livello di governance e di impatto sulle dinamiche sociali.
E’ il rischio di cui parla anche Morozov nel suo ultimo libro “Silicon Valley: i signori del silicio“, specie riguardo ad una certa idea di “sharing economy“ che di sharing ha ben poco, di capitalismo molto di più.
Sarà un’ottima occasione per parlarne e confrontarsi, collegandosi anche al tema abusato della partecipazione, che spesso disperde capitale sociale e conoscenze, e il grande tema della creazione di valore in filiere di attori terzi, senza una reale consapevolezza dei rischi in gioco.
Non è un caso che qualcuno poi parli di Cooperazione 2.0, come alternativa all’hype attuale attorno l’economia della collaborazione.
Forse focalizzare l’attenzione sulla filiera dei dati vedendoli come un bene comune digitale aiuta a capire molto meglio le dinamiche in atto, i mercati e il valore dei singoli attori, al di là del grande storytelling in cui ci ritroviamo tutti.
Se passassimo poi dalla retorica della partecipazione alla co-creazione nell’ambito delle comunità cittadine, sarebbe già un altro tassello importante. Un tassello in un ecosistema dove il bene comune digitale riveste effettivamente una sua importanza, che va condivisa e raccontata.
Insomma, tanta carne al fuoco: sarà interessante vedere quanto il tema degli Open Data sia conosciuto per i partecipanti all’evento.
Davide Arcidiacono (farà da moderatore al tavolo), sta rilanciando la giornata con alcuni approfondimenti iniziali, molto utili per chi non conosce le dinamiche attorno al tema:
Se passate in quel di Milano in quei giorni, fate un salto eh! Dopo la tavola rotonda faremo un vero e proprio laboratorio sui dati, ci sarà da divertirsi!
]]>Ecco perché forse non sono arrivati alla gente questi Open Data: perché tutto sommato ancora non hanno sfiorato nemmeno lontanamente i temi importanti delle nostre vite.
La salute è il mio tassello di partenza.
L’amianto in particolare, non è certo un tema del passato: al Wired Next Fest il 17 settembre, il presidente Renzi ha dichiarato di voler sbloccare le risorse per il piano nazionale amianto:
Prima di ricevere le 70mila firme della petizione di Wired “Addio amianto” su Change.org consegnate da Ferrazza per una legge ad hoc e promettere di lavorare “per il finanziamento al piano nazionale contro l’amianto”
Altro tassello di attenzione: dopo il terremoto di fine agosto nel centro Italia, aiutare la mappatura è ancor più importante, dati i rischi per la salute anche per i soccorritori:
Alla fine ci sono riuscito: sono mesi che devo sistemare gli appunti su Code4Health-amianto. Il tempo è mancato soprattutto per tutto quello dedicato alla partecipazione come rappresentante di SOD al Forum OGP, con il ministro Madia e tutto il resto della società civile.
In un certo senso, l’attenzione dedicata al Forum OGP è stata utile per aumentare la pressione sulla richiesta dei dati ambientali, compreso l’amianto. Ora che parte la fase di attuazione del terzo Action Plan e si riprende a parlare di quali dati serve aprire, è necessario continuare il lavoro iniziato.
Serve collegare alcuni fili rimasti troppo tempo aperti, per capire il contesto e vedere cosa si potrà fare sul difficile tema della mappatura dell’amianto.
Per chi avesse fretta di capire cosa è stato fatto tra maggio e giugno, esiste un repository su GitHub, corredato anche di un wiki esplicativo:
-> Aiutare la mappatura sull’amianto in Italia: code4health amianto su GitHub
Per gli altri, condivido il flusso logico e le scoperte fatte da quando ho iniziato a pensare a questo strano legame: amianto e Open Data si possono parlare?
Rilancio due spunti di Rosy Battaglia, tratti da un suo intervento al Festival del Giornalismo 2016:
il giornalismo non crea, si mette in contatto con le comunità
[…]
lavorare con i cittadini, non solamente per i cittadini
Questa è la sensazione avuta nei primi tempi in cui ho letto le varie inchieste sull’amianto.
Dopo aver lanciato il sasso in un blog post scritto per ePSI Platform, poi ricondiviso anche su Medium, dal titolo “Using Open Data to take care of our health: #code4health“, ho letto sempre più materiali, e scoperto che effettivamente il caos regnava sovrano.
Ho iniziato ascoltando e leggendo tutti gli interventi in merito di Rosy Battaglia, una delle giornaliste più appassionate e sul pezzo che stava dedicando diversi anni di approfondimenti e inchieste su questo argomento.
E ovviamente, c’è stata la campagna promossa su change.org da Wired #AddioAmianto, dove uno dei punti in evidenza è proprio la mappatura:
- Mappatura. Pubblicazione immediata in open data della mappa di tutti i siti a rischio censiti dalle Regioni anche se incompleta, insieme a una precisa e scadenzata road map per il completamento della mappatura nazionale.
Condivido la traccia usata per il civic hackathon durante il raduno di Spaghetti Open Data 2016 a Trento, il primo weekend di maggio:
Chi non lo conosce l’amianto? Credo siano davvero in pochi.
Serve un’azione civica per tenere alta l’attenzione sul tema #AddioAmianto: se i dati e gli Open Data non ci aiutano a farlo, allora non so davvero quale sia il loro reale potenziale.
I dati sono potere: esercitiamolo!
Può essere un modo di far percepire il valore degli Open Data anche alla gente comune: se non teniamo alla salute, a cosa teniamo? Quale argomento si può obiettare a questo? Di certo la salute ci interessa e interessa tutti.
Questa track “Code4Health“ può essere l’inizio di un lavoro ben più ampio, che aiuti le inchieste di questi anni di data journalism (condotte tra gli altri da attori come Cittadini Reattivi, Wired, Linkiesta e molti altri), e che diventi un supporto a movimenti che ci possano davvero aiutare a vivere meglio.
Una migliore cittadinanza, una migliore vita consapevole per tutti noi.
L’idea è partire dalla salute (dall’amianto in particolare ), e mappare i dati disponibili, quelli non facilmente riusabili e quelli che mancano, per guidare un’azione coordinata nei mesi successivi.
All’hackathon il sabato mattina non eravamo tanti, ma eravamo davvero ben motivati. Rosy ha fatto anche una comparsata in call che ha semplificato una mia introduzione alla questione.
Fin dall’inizio sono state chiare due cose:
Alla fine, dopo i primi momenti di sconforto per capire da dove partire, abbiamo abbozzato un Google Document per censire i dati disponibili all’interno dei siti regionali (visto che il Ministero dell’Ambiente latita).
In parallelo da quel lavoro è stata fatta pure una visualizzazione su mappa con QGIS, e molto altro. Un recap ufficiale l’ho annotato nel wiki: (per fortuna sono stato diligente eh)
-> Brainstorming iniziale a SOD16
Nei giorni del raduno e in quelli subito successivi, grazie al coinvolgimento di Rosy e di Davide Mancino, data journalist che aveva lavorato alla prima inchiesta su Wired, si scoprono altri elementi. Cito un estratto del primo intervento di Davide in lista SOD, nell thread “SOD16 - Code4Health: dati raccolti & progetto QGIS nell’hackaton“:
Il primo lavoro si è basato sui dati del censimento 2010, cioè in sostanza sullo scraping di queste 191 pregevoli pagine di pdf. Come potete immaginare, vista la fonte e le risorse che avevamo a disposizione è stato necessario escludere molte delle informazioni disponibili e concentrarci soltanto su quelle più importanti, ovvero la localizzazione dei siti per coordinate geografica e il coefficiente di rischio (la variabile che nel file si chiama “classe di priorità”, e indica i siti di maggiore gravità e quindi prioritari in termini di bonifica). Già lì i siti si contavano a decine di migliaia, ma anche a occhio si vedono grandi buchi e sorprende la mancanza di regioni importanti come Lombardia e Piemonte. Anzi il risultato poteva essere fuorviante, perché le Marche che avevano fatto un ottimo lavoro di censimento sembravano “infestate” dall’amianto, mentre le regioni più pigre (che neppure si sono degnate di fare il censimento e/o inviare i dati) apparivano immacolate.
Dopo di che con Rosy abbiamo continuato a seguire la vicenda, che ha continuato a evolversi nel tempo in maniera lenta ma costante. Per esempio ARPA Piemonte all’inizio ci aveva negato i dati, il che è un vero peccato perché avevano fatto un’operazione di mappatura assai dettagliata, ma è bastato rompergli le scatole per un po’ perché alla fine venissero fuori. Poi è saltato fuori anche il lavoro svolto in Lombardia, che però come avete già notato riguarda soltanto una porzione assai piccola del territorio. Ancora più avanti i dati pubblicati sul sito del ministero dell’ambiente sono stati aggiornati al 2013, ma se li avete aperti avrete senz’altro visto che forse sono ancora peggiori di quelli precedenti, perché a quanto pare ogni regione ha fatto a modo proprio, e comunque si tratta ancora di sole 14 regioni su 20.
Nonostante questo erano informazioni nuove (si fa per dire: i dati di alcune regioni risalivano al 2000, ma tant’è), per cui ci ho rilavorato su per cercare di renderli omogenei e ripulirli, magari escludendo i siti che comparivano (per ragioni piuttosto misteriose, ma forse il ministero dispone di sommozzatori e/o agenti all’estero) in fondo al mare Adriatico, in Grecia, a volte in Tunisia o in Iran.
Questi e altri spunti li ho poi raccolti nel wiki, se volete darci un’occhiata.
Essenzialmente le fasi di lavoro iniziali si sono concentrate sul capire quali dati fossero davvero quelli di riferimento, ovvero quelli più recenti, da aggregare e normalizzare. Il rischio di fare del lavoro inutile era dietro l’angolo.
Ho aperto una delle issues, proprio per esplicitare in maniera netta questa necessità.
Ci siamo fermati a cavallo della discussione su quale modello adottare per normalizzare i dati, e come aiutarci nella mappatura delle singole regioni, specie per poter poi fare richieste di accesso civico dedicato, dove i dati di un particolare anno non si trovano.
L’estate in arrivo e il mio coinvolgimento all’interno del Forum OGP hanno fermato i lavori, ma non la necessità di metterci le mani appena possibile. Il vaso di Pandora è ormai aperto.
Serve rifare il punto, specie ora: nel corso di ottobre e novembre si potranno chiedere i dati in maniera precisa, all’interno dell’Action 1 del terzo Action Plan italiano, che prevede la stesura della nuova Agenda Nazionale di rilascio dei dati in maniera partecipata con la società civile.
Al netto delle issues aperte nel repo ci sono alcuni elementi sul quale vale la pena soffermarsi, cito uno spunto che avevo condiviso in lista:
Un elemento a cui tengo particolarmente è la connessione di comunità differenti, ma che si completano: noi qui a SOD siamo fattori abilitanti.
Il tema della salute può essere uno di quelli che fanno sdoganare l’Open Data dalla nicchia in cui è rimasto in tutti questi anni, e farne un tassello per azioni civiche ben più ampie.
Un lavoro di squadra, dove ognuno porta il suo valore: perchè i dati sono potere, e la salute non è un campo da gioco in cui scherzare.
Chi mi conosce sa che sono particolarmente attratto dai processi, dal modo in cui diversi attori presenti nelle filiere fanno le cose, specie negli ambiti al confine di filiere date per scontate. Parlo della classica divisione: mondo privato, mondo pubblico o statale, e terzo settore.
In questo caso specifico, ci sono alcuni elementi di processo che mi appunto:
Chiarisco che non credo ci siano mancanze dei singoli: mi pare però ci siano molti punti da migliorare per tenere le fila, no? Dal punto di vista di un editore l’interesse di ripensare la gestione di inchieste guidate dai dati da un lato, e dall’altro una mancanza che chiama in causa le comunità che dovrebbero essere attente a queste cose. Quella Open Data, ad esempio.
Quando Davide risponde alla mia perplessità sulla mancanza di una cornice o di un aggiornamento delle inchieste in maniera aggregata, risponde così:
Il problema è che la maggior parte delle testate italiane (anche quelle più grandi!) non sono equipaggiate per affrontare in maniera strutturata temi che si aggiornano spesso nel tempo. Nonostante tutto quello che si dice sul digitale eccetera, molte sono ancora legate al concetto classico di “pubblico un articolo, lo butto e così via”, e lo si vede dal modo in cui sono impostati i vari CMS (Wordpress quasi ovunque) che più di questo non consentono. Infatti per l’inchiesta su Wired siamo dovuti uscire fuori dal CMS della testata con una pagina apposita. Poi l’abbiamo aggiornata altre tre volte, dopo l’uscita, ma dopo un po’ le testate perdono interesse (anche perché è una cosa costosa in termini di tempo e denaro) e quindi la cosa sfuma. Fra i pochi ad aver affrontato esplicitamente la questione mi pare ci siano quelli de Il Post, che da quel che vedo hanno un (ottimo) sistema per fare liveblog che forse potrebbe essere adattato a queste esigenze.
Dal punto di vista tecnico, quando si parla di dati e giornalismo, sarebbe bello poter avere un luogo condiviso dove aggregare e eventualmente aggiornare i dati, una specie di data marketplace.
All’estero non è certo un tema nuovo questo: mi devo riaggiornare, ma sicuramente nel caso dell’amianto il lavoro iniziato in maniera collettiva e pubblicato su GitHub potrebbe fungere da base per risolvere questa necessità.
Ci sono due articoli che evidenziano il valore di Github anche per chi non è uno sviluppatore:
Tra l’altro, l’approccio metodologico potrebbe essere spunto per la stesura di un processo condiviso e attuato poi direttamente dal Ministero dell’Ambiente per la raccolta e l’aggiornamento di un insieme di dati. Sfruttare direttamente un repo su GitHub potrebbe aiutare molti aspetti, davvero. E forse ci sono oggi delle porte aperte per stimolare una seria riflessione.
Questo è ancor più vero se consideriamo la crisi del modello di business del giornalismo in quanto tale. Ed è qui che chiudo queste note, per rilanciare ancor di più la necessità di vedere oltre le singole comunità e le competenze in cui tutti noi siamo immersi e inseriti naturalmente. E per concentrarsi non tanto sulla nuova tecnologia da provare, quanto nel problema che coinvolge tutti quanti e che ha bisogno di un aiuto collettivo per poter essere risolto. O almeno per essere reso evidente, visto che il lato istituzionale è mancante.
E qui stiamo toccando politica e potere, e non è detto che sia negativo, anzi. Per far cambiare le cose la pressione mediatica è un tassello fondamentale: per questo serve un lavoro di squadra, consapevole e coeso.
Rilancio lo spunto già citato da Rosy, in cui mi ritrovo totalmente:
il giornalismo non crea, si mette in contatto con le comunità
[…]
lavorare con i cittadini, non solamente per i cittadini
#hackingsociety
]]>Tre anni che sono passati davvero in un batter di ciglia.
Come ho già accennato anche su SOD, ho pubblicato qualche giorno fa il mio ultimo blog post per la piattaforma.
-> Where are we going regarding Open Data in Italy?
Lo riprendo qui, ma lo trovate anche su Medium in ogni caso.
Sono spunti che sono stati condivisi per chiarire una video intervista che ho rilasciato per l’ultimo meeting di progetto (che si è tenuto in Lussemburgo il 19 febbraio 2016), in cui il team uscente che ha gestito questi 3 anni di ePSI Platform si è confrontato con il nuovo team dietro al European Data Portal.
The Italian correspondent @dagoneye on the stage at the @epsiplatform tour pic.twitter.com/T1CgZ9fcuX
— Martin Alvarez (@espinr) 19 febbraio 2016
Assieme ad alcune considerazioni molto generali sulle dinamiche in corso relative all’Open Data in Italia, ho aggiunto anche qualche considerazione sull’attività di corrispondente.
Before the official closure of the ePSI Platform, I wanted to share some ideas about the status of Open Data in Italy.
The public administrations, that manage data (like regions, municipalities and so on), suffer from a lack of digital skills. Agency for Digital Italy (AgID) and other actors have been doing a good job to improve the digital skills of Italians (not only with the people inside the Public Administration), however, we need both more budget and more stories/media coverage on those initiatives to make them relevant.
Regions, municipalities, and provinces have, often, the authority on data. The extreme dissemination of the data providers produces a chaotic governance about our Open Data process. The result of those factors is poor quality data, beyond an irregular distribution of datasets available with Open Data licenses over the country. Last, but not least, what is the real value in having Open Data portals at all our administrative levels? Why can’t we access a singular website for the national level and, eventually, others at a regional level? Governance is certainly a problem.
One big step forward was made last year, thanks to an amendment written by Stefano Quintarelli. This amendment modified our constitution so that the central government could decide on the governance of the overall IT process, upon all the administrative levels, including the choice of technologies and the definition of processes. (more details in Italian here)
It’s not simple, but we’re working on it while waiting for the completion of this important modification of our constitution.
In my opinion, this long-term move could represent an enabling factor to help simplify the IT governance of our country.
Meanwhile, we need stronger guidelines, both on standards and metadata, and real national coverage, based on the topic of the data. We need a roadmap to work seriously on this.
To make Open Data really an asset for businesses, we should work on having likewise and updated data, regardless of the data provider. Otherwise, Open Data is only a marketing operation useful for politicians, nor for citizens, neither for the PSI market.
As an hacktivist, I realized that the concept of reuse is very important: it’s a real value itself.
In fact, we need a better way to manage the storytelling of the reuse of Open Data across Europe. A better visibility of existing communities and best practices could be an incentive to enable real participation, especially if we consider the long-term impact.
Being a correspondent for the ePSI Platform was really nice: one of the most important aspects of the work was being able to highlight bottom-up initiatives that could help put some concrete pressure on the local government. That pressure, sometimes, really works!
For the future, I think that the initiative called “Erasmus for Open Data“ needs attention. The proposal is now named Open Data Exchange, take a look at it.
It should help the creation of the digital single market from the bottom to the top, starting with the people.
We need to identify what really is Open Data, and what isn’t.
My last advice, to enable a real Open Data infrastructure, is to communicate Open Data as digital commons useful to build upon it.
Something that can be used to enable a new kind of economy.
Greg Bloom explained this very clearly in his chapter “Towards a Community Data Commons“, published as part of “Beyond Transparency”:
If the responsibility to (re)produce knowledge about a community is shared but diffuse, and if the output of organized production is to be truly free (as in speech and beer and, yes, puppies) then we will require some kind of mechanism for collective action, through which the resources (skills, time, money, data, knowledge) necessary to build and maintain the community resource data commons can be pooled.”
[…]
Writing recently about the patterns of community technology development, Michael Gurstein (2013) called for innovation to be something that “is done by, with and in the community and not simply something that is done ‘to’ or ‘for’ the community.”
This may be such a strategy: generating community resource data through the generation of a resourceful community.
It’s important to spread the idea of digital commons to better manage the storytelling applied to Open Data, as someone is already doing it (including different scenarios, like smart cities).
As we already know, Open Data is more a movement than a technology. Building something useful for profit on a commons is a step forward that solves the common misunderstanding of the word “Open”, especially in a business perspective.
We have to try to take this chance to enable a different kind of economy. It’s our turn to change the world!
–
La foto della cover è tratta da Flickr: Open Data (scrabble)
]]>Stiamo parlando di un post degli inizi del gennaio 2013: molta acqua è passata sotto i ponti, specie considerando che su questo tema c’è sempre stata davvero molta confusione. Specie lato Google, che non ha mai del tutto chiarito il rapporto di causa-effetto tra investimento in questo maggior costo nell’attività di pubblicazione del contenuto, rispetto alle conseguenze positive nella visualizzazione delle SERP attraverso i Rich Snippets.
Anche in Italia se ne parla maggiormente di più rispetto ad alcuni anni fa, e con dovizia di particolari, in articoli come questo:
I dati strutturati: cosa sono e come aiutano la SEO
Mai come oggi il tema inizia ad essere compreso per quello che davvero è: un cambiamento bello grosso per il modo di rispondere alle domande poste a Google.
Si accorcia la filiera sulla “search” ovvero si abbrevia il mondo di ottenere informazioni e conoscenza, le pagine dei siti Web saranno sempre più “saltate”: ci sono e ci saranno nella pagina delle SERP alcune informazioni “fattuali”, e non lo dico solo io. Per abilitare le Google Cards di Google Now o una loro versione mobile, anche grazie al Google Knowledge Graph.
Mostrando quidi direttamente nella pagina dei risultati quello che stiamo cercando, estrandolo direttamente dalla pagina del sito Web di destinazione.
Imagine a world in which there was still an internet, but no websites. A world in which you could still look for and find information, but not by clicking from web page to web page in a browser.
A world where you could search the web from any internet-connected device without needing to visit a website to start your search.
A world where search engines provided answers directly to your questions, rather than returning a list of websites where an answer might be found.
It’s a world not all that different than our own, because of course we already live in a world where we can ask questions by diverse means on diverse devices and expect a direct answer in response.
Questa cosa già accade in alcuni ambiti, con quesiti molto basici, ma che devono far riflettere sulle conseguenze. Un esempio di una domanda banale: che ora è in questo istante a Quito?
Visto che ci serve capire come migliorare la proprio presenza “fattuale” nelle SERP, proviamoci con JSON-LD, il formato Linked Data ben digerito da Google negli ultimi tempi.
Da qualche settimana sto provando l’approccio JSON-LD consigliato in questo tutorial:
-> Implementing JSON-LD in WordPress
Ho copiato un file PHP leggermente modificato, ed inserito la chiamata a quella funzione nel tema attualmente attivo. Ho avuto qualche problema ad impostare alcuni valori, specie per non settarli via plugin classici come “All In One SEO”, che ripetevano e si sovrapponevano all’informazione strutturata.
Provando a visualizzare i dati strutturati con il tool di anteprima di Google capirete un po’ le impostazioni che ho dato per adesso.
Specie nell’ottica di utilizzare JSON-LD per abilitare azioni vere e proprie, come quelle che Google ha già attivato nell’interfaccia di Gmail, o in altre occasioni, come nel caso di eventi da inserire o meno nel proprio calendario:
-> Rsvp Action - Email markup
Vediamo tra qualche settimana cosa accadrà…
Negli ultimi anni le vicende della vita hanno messo nel mio flusso quotidiano altre priorità, e gli strumenti che la Rete ha partorito in questi anni sono aumentati enormemente. Alcune delle cose che ieri si pubblicavano nei blog, oggi sono storie e frammenti sparsi per gli n social network che usiamo tutti quanti.
Voler recuperare il proprio lifestream distribuito, anche solo come modo di archivio del proprio io non è banale, e di certo non è semplice.
Specie cercando un equilibrio migliore del “donare” i propri pensieri ed i propri dati SOLO agli n intermediari della Rete che esistono oggi.
Sapendo che domani potrebbero sparire, cambiare e diventare altro, chissà.
Sono capitato per serendipity in un post di oltre un anno fa di Luca De Biase, che segnalava l’importanza di riflettere e di rimettere nella giusta collocazione il mezzo blog, in senso lato.
I blog, nel flusso dei social network, si sono riposizionati. Hanno assunto un ruolo più vicino alla riflessione e all’approfondimento. E mantengono altre qualità. Per esempio funzionano di solito su piattaforme che non sono troppo ingombranti dal punto di vista dell’influenza sui comportamenti e possono svilupparsi contando spesso su piattaforme aperte. Il loro recupero di importanza potrebbe avvenire proprio in connessione con due problemi che si pongono: il primo è il bisogno di qualità, il secondo è il bisogno di apertura delle piattaforme. Ma occorre riprendere consapevolezza di un punto chiave: **i blog sono rilevanti se si citano, se si comportano come un sistema che collabora, se si dichiarano reciprocamente rilevanti. **
C’è un elemento infrastrutturale che aveva creato il valore aggiunto della citazione in quegli anni di espansione della blogosfera: quell’elemento chiamato “pingback”(Pingback su Wikipedia). Ovvero la capacità di far emergere esplicitamente la citazione all’indietro verso una pagina Web.
Se aggiungevo nel contenuto di un blog post un link ad un’articolo scritto con una piattaforma che implementava lo standard “pingback” (Wordpress, ad esempio) generavo un ping verso quel link, che veniva interpretato automaticamente dalla piattaforma software di blogging, che a sua volta generava un commento automatico di connessione all’indietro (il back). Ed entrambi questi link venivano inseriti esplicitamente nelle due pagine Web, creando una connessione permanente.
Questo link che faceva da fonte verso un altro è sempre stato visibile attraverso i sistemi di statistiche disponibili agli amministratori/detentori dei siti e dei blog ( da Google Analytics, a Shinystat, a tutti quei sistemi basati sui logs lato server… ) con il nome di Referrer.
L’effetto dirompente generato a suo tempo dal pingback, è la condivisione verso terzi di questi referrer, e la loro esplicitazione visibile ed utilizzabile dai motori di ricerca, nonchè agli altri utenti della Rete, che vedevano e quindi potevano seguire le connessioni tra quelle riflessioni. Seguivano la discussione tra diversi blog.
A volte era scomodo, ma la parte abitata della Rete di quegli anni creava valore così.
A livello SEO, ovvero di visibilità sui motori di ricerca, era diventanto talmente trainante questo effetto, che nel tempo è stato perfino oggetto di penalizzazione, e quindi ha perso importanza. E’ anche vero che poi il sistema di commenti in tempo reale tipico della vecchia FriendFeed, ed oggi onnipresente su Facebook e su altri social newtork, ha reso il commento condiviso e strutturato da blog a blog una cosa molto meno utile.
Specie quando non diventa articolato, con citazioni da altre fonti.
Nell’approfondire cosa fosse successo al pingback, sono capitato nell’iniziativa WebMention.io che sembra uno spunto notevole sul tema.
Webmention.io permette ed abilita l’idea del pingback usando tecnologie Web maggiormente recenti e permette di aggiungere questa funzionalità a siti statici (come quelli realizzati con Jekyll, ad esempio):
This project is an implementation of the Webmention and Pingback protocols. It allows the receiving service to be run separately from the blogging software or website environment, making it easier to manage and integrate with other services.
Non è nemmeno un caso che sia un’idea nata a valle di Indieweb, a dire la verità.
Il vero elemento che abilita la blogosfera come un unico mezzo è la capacità di far emergere interessi comuni, linkandoli, e quindi dando loro un peso maggiore.
Una semantica esplicitata in quel grafo risultante alla base di progetti collettivi come quello dei tags di Technorati, oppure alla vecchia gloria italiana Blogbabel.
Tutti strumenti che aiutano a dare una struttura ed un’interfaccia alla granularità del singolo nodo, ovvero del singolo blog.
I blog nella velocità e nella lotta dell’attenzione sono delle isole ben piazzate nella Rete, che danno maggior memoria rispetto al classico mondo dei Social Media.
Ci sono sicuramente meno intermediari che possono sparire nel tempo, tanto per dire.
Per tornare a Luca De Biase, è sempre una questione di valore e libertà per tutto l’ecosistema informativo. Serve pensarci.
Anche perchè anche l’investimento di tempo nella gestione di quel “personal brand di ognuno di noi” non è banale e va difeso. Sul mondo giornalistico è ancora più palese, come ci ricorda Giuseppe Granieri:
Oggi tutti aprono un blog per ragioni di personal branding. Soprattutto per il giornalismo, non quello dell’Ordine, quello vero. Per citare Mario (che riduco a Boskov), «giornalista è chi giornalismo fa». Poi ci sono le ragioni del brand journalism, eccetera.
Ma, alla fine, conta la logica che sostengo da sempre. Seguiremo sempre più la firma autoriale che non le testate o i «pacchetti», come il giornale (prendiamone atto, il giornale é finito, come concetto prima che come prodotto). Su questo, come dico da anni, sono confortato dal pezzo di Katie Mccaskey che sostiene che «iscriversi ai giornalisti, e non alle testate o ai media industriali sarà il nuovo “normale”»
Semplici appunti, per ora, pezzi di un puzzle in corso d’opera.
Verso un primo passo di realizzazione di ulteriori sperimentazioni: se noi siamo nodi maggiormente permanenti della Rete, con i nostri blog, perchè non diventare maggiormente coscienti ed abilitare una forma più diretta di “Intention Economy”, grazie anche ad un maggior utilizzo dei dati strutturati?
-> Introducing the Indie Dash Button! #indieweb #vrm
This model for commerce - commonly referred to as Vendor Relationship Management, or VRM - turns traditional advertising on its head, and removes the need for complicated targeting technology. Customers readily identify themselves, creating more valuable sales channels where guesswork is all but eliminated.
Additionally, the use of indieweb technologies like webmention and microformats here removes the need for complex or proprietary identity technology. The customer can use the platform of their choice, without the risk of a single vendor locking stakeholders into a single service and impeding commerce and innovation over time.
The customer says they need to buy something; vendors respond with their best offer; money is made, products are sold, and everyone walks away happy, with almost no friction.
Sta nascenda qualcosa di molto interessante.
Web of Needs
L’ideale è seguire che accade, non perdendoci le nostra identità aumentate in giro per la Rete.