Sometimes open needs a push : è il sottotitolo originale della foto della copertina di questo post (la foto è rilasciata in pubblico dominio), che è anche uno dei messaggi di questo approfondimento.

Sono stati mesi davvero particolari quelli appena passati: da appassionato di Open Government - e di civic hacking -, ho vissuto diverse fasi emotive nel vedere come l’Italia sta affrontando l’emergenza. Avevo (ed ho tuttora) un profondo senso di frustrazione nel vedere non applicate le prassi del governo aperto, da quasi nessuna delle nostre istituzioni.
Così, ho pensato di approfondire la natura del’applicazione pratica dell’Open Government in Italia. Volevo capire quanto fosse un esperimento (dopo dieci anni che se ne parla) totalmente alla periferia dei veri meccanismi che regolano il funzionamento della democrazia italiana e quanto, invece, stesse ponendo dei cambiamenti radicali e duraturi.
A quanto pare, è ancora un esperimento.

Lo schema di funzionamento dell'Open Government con i suoi tre pilastri

Non voglio lamentarmi per il gusto di farlo: ho preferito far evolvere la fase di frustrazione e di rabbia per cercare un filo conduttore che mi aiutasse a fare un po’ di ordine sulle cose da fare per migliorare la situazione. Per organizzare i miei pensieri, mi sono liberamente ispirato alla strategia tipica che troviamo nei progetti di civic hacking:

  • individuare un problema concreto;
  • cercare soluzioni già presenti, re-interpretandole in maniera originale (remix creativo);
  • abbozzare un prototipo;
  • cercare la collaborazione aperta delle comunità.

Ecco a cosa sono arrivato:

  • Problema: il governo aperto in Italia non c’è, tranne qualche sperimentazione (tra cui molto del lavoro e delle metodologie applicate dall’ex Team per la Trasformazione Digitale, ora in capo al Dipartimento per la Trasformazione Digitale) che non incide sul potere e non ha praticamente impatto. Almeno, non ancora. Questo vale ancora di più se si considera l’ambito degli Open Data. “I dati aperti non sono sentiti e gestiti come l’acqua, né da chi li ‘produce’, né da chi li ‘consuma’: ovvero qualcosa di ‘pubblico’ senza la quale i luoghi in cui viviamo non possono essere considerati abitabili”. Questo scriveva Andrea Borruso a fine 2016: siamo ancora esattamente a quel punto;
  • Soluzioni: bisogna prendere atto che non è così facile come pensavamo dieci anni fa. Se guardiamo al lato istituzionale, per migliorare le cose servirebbe pure integrare la Costituzione (l’emendamento Quintarelli all’art. 117, che poi non ha visto la luce per la vittoria del no sul referendum costituzionale). Come società civile, abbiamo applicato strategie inefficaci: potrebbe essere utile una maggiore chiarezza condivisa per non ricadere negli stessi errori. Vedo due filoni:
    • il modello del governo aperto si poggia su tre pilastri: trasparenza, partecipazione e collaborazione. Il contesto italiano si è concentrato molto solo sulla trasparenza, molto meno sulla partecipazione. La collaborazione, infine, è vista spesso come sinonimo di “consultazioni”. Di sicuro, non è stata colta la contaminazione con le prassi legate al mondo dell’Open Source e del software libero, anche per semplice inconsapevolezza di quel contesto. È tempo di lavorarci, anche partendo dagli ottimi spunti (prassi e strumenti) lasciati in eredità al Dipartimento per la Trasformazione Digitale. Uno spunto da riprendere è il cambiamento di approccio nella pubblicazione nei dati relativi allo stato di diffusione della pandemia da parte del Dipartimento per la Protezione Civile;
    • è il caso di tornare alle basi, aggregando gli sforzi che sta facendo la società civile. Sfruttiamo la doverosa attenzione alla pandemia e focalizziamoci sulla salute, sia per aiutarci nel prossimo futuro, sia per la centralità mediatica che ha questo tema. Serve tornare a fare pressione, quella vera, tutti assieme proprio per non perdere diritti, oltre che le opportunità della visione del governo aperto.

Cosa trovi nel post

1 - Problema: quale governo aperto esiste in Italia?

A. Quanti sono i posti letto di terapia intensiva a livello nazionale?
B. Chi sta davvero prendendo le decisioni e su che basi? 

2 - Cosa possiamo fare di meglio?

A Lavorare sulla cultura della collaborazione
B. Dare evidenza costruttiva di un comportamento sbagliato



1 - Problema: quale governo aperto esiste in Italia?

Questo è il problema che mi sono posto da qualche settimana: esiste davvero una forma di “Open Government” in Italia al di là dei comunicati stampa del singolo Ministero e dei convegni che si fanno ormai da quasi dieci anni su questo tema?
Dopo le prime settimane di marzo, in cui ho sospeso il giudizio, sono stato costantemente deluso dalle iniziative governative e dalle modalità che venivano adottate per la gestione dell’emergenza.
La fiducia che abbiamo dovuto dare ai nostri rappresentanti in una fase in cui ci è stato richiesto di ridurre le nostre libertà individuali è stata davvero molta e lo sarà ancora di più nei prossimi mesi. Se in una prima fase sono stato accogliente, successivamente alcune cose mi hanno fatto letteralmente saltare i nervi.

  • I dati (che vengono usati per prendere le decisioni e per aiutarci a capire quello che succede).
  • La gestione del potere all’interno del contesto emergenziale.

A. Quanti sono i posti letto di terapia intensiva a livello nazionale?

Una delle tante questioni sul piatto che hanno catturato la mia attenzione era questa: qual è la capacità massima di gestione delle terapie intensive in tutta Italia? Se mi ammalo e ho bisogno di essere ricoverato in terapia intensiva, vorrei sapere se il medico che mi cura deve arrivare all’estremo di dover scegliere chi salvare tra i malati per mancanza di posti sufficienti a curare tutti.

Il Ministero della Salute ha una sezione sugli Open Data da alcuni anni: tra i dati che mette a disposizione, c’è un dataset sui posti letto:

Si tratta di un file CSV di oltre centomila righe (il totale si vede in basso a destra dell’immagine che mostra il file aperto con VisiData): l’ultimo dato disponibile è relativo all’anno 2018.

Uno sguardo al dataset con Visidata

Strano, però. I metadati del dataset sono stati modificati per visualizzare un aggiornamento (fittizio?) al 31/12/2019, che però non c’è, visto che i dati sono fermi al 31/12/2018.

I metadati del dataset sono strani

Tra l’altro, il Ministero della Salute non rientra tra le fonti dei dati che sono presenti nel portale dati.gov.it. Se cerco i posti letto all’interno del portale dati.gov.it non trovo il dato con copertura nazionale gestito dal Ministero della Salute, ma solo qualche dato a macchia di leopardo di altri enti. Quale altro modo abbiamo per ricavare un dato aggiornato sui posti letto? Anche concedendo che i posti in terapia intensiva non cambiano di anno in anno, durante una pandemia cambiano: si aggiungono strutture temporanee e posti letti dove prima non c’erano. Quindi dove sono segnati questi numeri?

L’unica fonte che ho trovato aggiornata è una fonte costruita dal basso e in maniera collettiva: un lavoro di raccolta manuale dei numeri che emergevano dagli aggiornamenti contenuti nei comunicati stampa delle singole Regioni. Un’iniziativa lodevole di Matteo Villa (ricercatore dell’ISPI), che ha sempre fornito importanti aggiornamenti dal suo canale Twitter. Questo è il foglio elettronico con i dati:

Il foglio elettronico su Google con i posti di terapia intensiva gestiti dall'intelligenza collettiva

Se guardiamo la riga 26, scopriamo che la fonte primaria è il dato del 2018 fornito dal Ministero della Salute di cui parlavo qui sopra. Evidente che sia una fonte troppo datata, specie rispetto alla necessità di conoscere il dato reale in questa fase di emergenza. Perché non è stato tenuto aggiornato il dato direttamente dal titolare (Ministero della Salute), visto che era già un flusso che avrebbe dovuto essere operativo? Perché ancora oggi non è stato aggiornato? Se l’Open Data non è trattato alla pari di un servizio infrastrutturale, allora non è Open Data (non risponde a tutti i requisiti della definizione e, nella pratica, diventa un dato utile soltanto alle analisi storiche). Il rischio di finire nell’open-washing è alto.

A tutt’oggi, il dato più aggiornato che troviamo nelle fonti istituzionali è annidato nelle tabelle dei report in PDF pubblicate dall’Istituto Superiore della Sanità (ISS), a quanto ho potuto vedere.

Avere il dato aggiornato aiuterebbe a ridurre le notizie false attorno al complesso tema della gestione della sanità pubblica: approfondimenti come quello di Open sarebbero molto più semplici da fare.

Il fact-checking di Open sull'andamento della disponibilità dei posti letto in Italia

Sui dati, c’è tutto il tema di quelli necessari a capire come sta andando davvero la Fase 2, ora che entriamo nella Fase 3: ci sono questi dati? No, c’è il caos. Ritardi e omissioni difficili da spiegare. Scoprire che le Regioni giocano un po’ sui dati e che nella Lombardia ci sono dei vuoti pazzeschi di trasparenza e di dati, meriterebbe un approfondimento a parte, che lascio alle testate giornalistiche come Altreconomia (La Regione dei funamboli: scarsa trasparenza, alto rischio) e Il Post (La Regione Lombardia e i dati sull’epidemia). Ovviamente, non sono esaustivo con questi esempi: cito anche stranissimi cambiamenti nei dati inviati dalla Provincia Autonoma di Trento.

Non ce la caviamo meglio nemmeno con le richieste di accesso ai dati: si ricevono rifiuti alle richieste che hanno dell’incredibile. Qui sotto la risposta della Regione Piemonte di qualche giorno fa (ne avevamo parlato anche nell’ultima newsletter di #CivicHackingIT):

B. Chi sta davvero prendendo le decisioni e su che basi?

La fondazione openpolis ha fatto un lavoro immane in questi mesi (e continua a farlo), proprio per farci capire la gestione organizzativa dell’emergenza e i problemi che ci pone davanti. In una fase in cui si riducono diritti e vengono prese decisioni tanto importanti, un Paese consapevole delle dinamiche di un governo aperto dovrebbe sfruttarle a suo vantaggio, giusto? No. Fa esattamente il contrario, perché toglie legittimità agli stessi organi democratici, come a quello del Parlamento.

Uno screenshot di una delle pagine degli approfondimenti realizzati sul covid19 da openpolis

Quello che lascia perplessi è il numero zero sui verbali che sono stati pubblicati online da parte dei diversi comitati e delle ennemila task-force create per gestire al meglio le decisioni nelle diverse fasi della crisi. Per chi si ricorda del termine “accountability”, uno dei pilastri dell’Open Government, è grottesco ritrovarsi in una realtà che si muove in maniera del tutto opaca.

Come possiamo coniugare l’adozione delle pratiche dell’Open Government con la riduzione delle libertà e la crisi dei meccanismi che regolano la nostra democrazia?
Questa incoerenza non è un problema solo italiano, ovviamente:

Anzi, in alcuni casi la situazione sta pure peggiorando:

2 - Cosa possiamo fare di meglio?

So che ci sono piccoli tentativi di sperimentazione istituzionale relativi alle pratiche di Open Government: penso alla squadra dietro open.gov.it che segue il filone relativo alle attività dell’Open Government Partnership e al Dipartimento per la Trasformazione Digitale (parte dell’ex Team per la Trasformazione Digitale). Il problema principale è che sono filoni fortemente sconnessi da tutto il resto delle priorità e, spesso, pure tra loro. Lo sappiamo: il problema della governance non si può risolvere dall’esterno come società civile, non è qualcosa in cui avremo mai impatto. Possiamo creare delle evidenze che aiutino qualcuno all’interno della PA ad attivare quel cambiamento verso pratiche Open altrimenti difficili da attuare.
Lo stiamo già facendo: c’è la bella storia sulla pubblicazione dei dati giornalieri sull’andamento dell’epidemia in Italia in un repository GitHub da parte della Protezione Civile. Un ottimo esempio che rimane isolato, purtroppo (anche se è stato citato anche all’estero) e che stride moltissimo con i rifiuti ricevuti sulle richieste di accesso ai dati di mortalità a livello comunale, ad esempio.

A questo punto, ho pensato di approfondire di più la natura del problema e ho individuato tre elementi:

  1. la politica lavora come se la dimensione infrastrutturale del digitale non esistesse, non la tratta al pari delle infrastrutture tradizionali. Si usano strumenti e metodologie poco efficienti rispetto a quello che si potrebbe fare nel 21esimo secolo: perché pubblichiamo ancora i dati nascosti nei PDF quando nascono già in una forma digitale maggiormente riutilizzabile? Perché non si mettono in pratica e si diffondono le prassi già adottate con successo dall’ex Team per la Trasformazione Digitale? Perché il digitale è sempre un po’ virtuale per la classe dirigente?
  2. la macchina pubblica diventa sempre più opaca, al posto di dare conto del suo operato come impostazione di default. Le possibilità che il singolo cittadino ha di approfondire i dettagli di una decisione pubblica che ha un grandissimo impatto nella sua vita si stanno riducendo, al posto di aumentare. Ad esempio, come mai non ci sono online i verbali delle riunioni di tutte le task-force nate in questi mesi e non c’è tutta la documentazione creata a supporto dei lavori?
  3. il potere è un gioco a somma zero: è chiaro che Internet e tutta la dimensione del digitale/immateriale rappresentano fattori che spostano gli assetti di potere. La classe dirigente lo intuisce e lotta per mantenere lo status-quo, con tutte le sue forze. Specie questa tipologia di classe dirigente.

A. Lavorare sulla cultura della collaborazione

Vale la pena soffermarsi sul primo elemento: c’è anche un perché, non è una scelta esplicita. Mi sono venute in mente alcune parole di Stefano Quintarelli (sono tratte da questa lezione - Cosa significa diventare umani digitali? - esattamente dal terzo minuto e venti secondi):

[…] mi sono reso conto che la categoria degli informatici è estremamente sotto rappresentata nei luoghi decisionali rispetto alla rilevanza che l’informatica ha nella società. Detto in altri termini, in Parlamento la metà sono avvocati e gli informatici, tra Camera e Senato, che sono malcontato un migliaio di persone, nella scorsa legislatura eravamo in quattro.

Questo fa capire la dimensione del problema: totale inconsapevolezza delle opportunità a disposizione. Se questa è la premessa relativa alla classe politica della legislatura che c’era tra il 2013 e il 2018, allora si spiegano molte cose. Mi spiego molto meglio la fortissima attenzione che è sempre esistita tra Open Government e trasparenza, molto meno tra Open Government e collaborazione. Marina Bassi ne parlava anche nel febbraio 2019:

Il 2018 è stato un anno contraddittorio per l’Italia in tema di governo aperto, a seconda del punto di vista dal quale lo si guarda. Da un lato, in termini di Open Government inteso nell’accezione di governo trasparente, è stato palcoscenico di traguardi raggiunti, o quanto meno di passi in avanti (si pensi al posizionamento dell’Italia sul tema Open Data nel DESI 2018, o nell’Open Data Maturity Report europeo); dall’altra parte, non ci siamo sulla visione di governance che l’apertura delle istituzioni dovrebbe concorrere a creare (lo leggiamo anche nella sezione II dell’Indagine sul livello di maturità degli Open Data in Italia e dell’applicazione della direttiva PSI, a cura di AgID). Trasparenza sì, collaborazione non ancora.

Forse, non è soltanto colpa delle nostre istituzioni e del governo, anzi. È più complicato di così. C’è qualche problema anche nella declinazione stessa di Open Government. Mi è capitato di leggere una buona parte di questa pubblicazione del 2011: “Implementing Open Government: Exploring the Ideological Links between Open Government and the Free and Open Source Software Movement”. Una lettura davvero interessante, dove si parla delle ambiguità insite nel termine ‘Open Government’: chi vede molto l’accento sul concetto di aperto come trasparente, chi invece di Open nel senso dei principi di collaborazione tra pari dietro ai movimenti del Free Software e dell’Open Source. Se pensiamo al contesto italiano, è naturale che non si comprenda molto l’aspetto di collaborazione, vista la mancanza di cultura digitale nei luoghi decisionali che dovrebbero incentivare l’implementazione stessa del governo aperto. Questa incomprensione di fondo ha creato delle conseguenze importanti: ci sono obiettivi e strumenti politici diversi in relazione alla trasparenza, visto che la trasparenza è spesso un obiettivo intrinseco della buona democrazia. Ne possiamo immaginare altri, se la trasparenza fosse interpretata come un fattore che abilita una migliore collaborazione e non come valore fine a se stesso. Una collaborazione che permette di intercettare al meglio anche gli spunti progettuali della famosa intelligenza collettiva. Qualcosa che veda la PA non come una casa di vetro, ma come una piattaforma abilitante.

A questo proposito, condivido una tabella presente nella pubblicazione che trovo zeppa di spunti: ad esempio, guardiamo all’evoluzione dei valori nel corso del tempo. Etica hacker, libertà, apertura e collaborazione per ultima. Pare quasi che i valori precedenti diventino la base per permettere una collaborazione vera.

L'evoluzione del movimento del software libero

Se riprendiamo il piano d’azione 2016-2020 dell’e-government dell’agenda digitale europea troviamo un bel remix di concetti affini (i grassetti sono miei):

apertura e trasparenza: le pubbliche amministrazioni dovrebbero scambiarsi le informazioni e i dati e permettere a cittadini e imprese di accedere ai propri dati, di controllarli e di correggerli; permettere agli utenti di sorvegliare i processi amministrativi che li vedono coinvolti; coinvolgere e aprirsi alle parti interessate (ad esempio imprese, ricercatori e organizzazioni senza scopo di lucro) nella progettazione e nella prestazione dei servizi;

Gli elementi c’erano, ma non sono stati considerati. È sicuramente un filone da riprendere, anche come società civile. Serve aumentare la consapevolezza, serve fare cultura. Senza dimenticare che se la PA si muovesse come una piattaforma, la collaborazione si attiverebbe in maniera indipendente.

B. Dare evidenza costruttiva di un comportamento sbagliato

Avete mai sentito parlare di antipattern?

In informatica, gli anti-pattern (o antipattern) sono dei design pattern, o più in generale delle procedure o modi di fare, usati durante il processo di sviluppo del software, che pur essendo lecitamente utilizzabili, si rivelano successivamente inadatti o controproduttivi nella pratica. - Wikipedia

Detto in altri termini, sono dei modi comuni per rispondere ad un’esigenza ricorrente che non porta alla soluzione del problema di partenza, anzi in molti casi lo ripropone in altre forme. Vedendo i casi di mancanza di trasparenza, di accountability e di dati che sono parte di molti problemi, ho pensato che potrebbe essere un buon modo per interpretarli per andare oltre alla lamentela. Non è un’idea del tutto nuova, anzi. Sugli Open Data qualcuno ci ha pensato, ad esempio il famoso Open Data Bingo, non ci stiamo del tutto allontanando da cose già viste in passato. Non mi è del tutto chiaro se potrebbe essere utile. Ho iniziato ad abbozzare una tabella per fare un po’ di ordine sugli appunti che mi stavo prendendo.


AMBITO: Supporto alle decisioni
DEBOLEZZA OPEN GOV: mancanza di accountability

PROBLEMASOLUZIONE ADOTTATACOSA NON È OPENPRASSI NELLA PA DA IMITAREAZIONI PUSH DELLA SOCIETÀ CIVILE
Aggregare gli spunti di tutti gli stakeholders per decidere una strategia collegialeCreazione di task force
  • Composizione poco chiara (sia nella scelta che nell’elenco)
  • Competenze svendute a titolo gratuito
  • Nessun Verbale pubblico
  • Nessuna documentazione a corredo del lavoro resa pubblica
  • Pagina “Chi siamo” del Team digitale
  • Scelta meritocratica
  • Blog e materiali di lavoro su GitHub, progetti documentati

Che ne pensate? Potrebbe essere utile?

Ulteriori approfondimenti