Il civic hacking è, anche, un modo per rispondere a situazioni di emergenza. Ce ne siamo accorti scrivendo la newsletter: nell’archivio della newsletter di #CivicHackingIT ci sono ben 18 corrispondenze per il termine emergenza.

Io e Erika abbiamo ragionato in modo strutturato sul legame tra emergenze e civic hacking soprattutto grazie a due eventi collegati a due diverse edizioni del Festival della Partecipazione:

  1. 2019: “Trasparenza, open data e comunicazione nel ciclo del rischio”: una tavola rotonda a cui abbiamo partecipato Erika ed io il 23 novembre 2019 all’Aquila, invitati da ActionAid all’interno della campagna #Sicuriperdavvero;
  2. 2020: “L’attivismo digitale al servizio della collettività”: in cui abbiamo aperto la giornata con una sessione introduttiva sul civic hacking in emergenza.

Cosa mi sono portato a casa da #sicuriperdavvero

L’evento del novembre 2019 che si è tenuto all’Aquila era uno dei tavoli di lavoro all’interno della campagna #sicuriperdavvero, un evento che ActionAid ha riassunto così:

Trasparenza, open data e comunicazione nel ciclo del rischio
Questi sono stati i temi in oggetto nell’ultimo evento del 2019 che si è tenuto a L’Aquila il 23 novembre durante il Festival della Partecipazione. Più di 40 partecipanti, provenienti da diverse parti d’Italia e con diverse expertise – dall’associazionismo alla pubblica amministrazione, dal settore privato agli ordini professionali – si sono confrontati in due tavoli di lavoro diversi (uno sulla prevenzione e uno sull’emergenza/ricostruzione).

Partendo dalle esperienze italiane e dalle buone pratiche, arrivando a delineare indicazioni e raccomandazioni per le politiche pubbliche sull’utilizzo dei dati e sulla corretta informazione.

Questa è la descrizione tratta dalla pagina dell’evento. I risultati di quel lavoro sono visibili nella raccolta di pratiche ed esperienze e nel report finale, curati dallo staff di ActionAid. Erika ed io ci siamo divisi per tutta la durata della giornata di lavoro: lei è andata al tavolo emergenza/ricostruzione, mentre io sono stato su quello della prevenzione. Se volete leggere le sue riflessioni, le trovate in questo post, dove cita anche il numero della newsletter che avevamo dedicato a quell’evento. Non mi soffermerò su quello che avevo portato per il primo giro di tavolo, trovate tutto citato in quel numero della newsletter di #CivicHackingIT.

Mi concentro su alcuni degli elementi emersi da quell’incontro.

  • Divulgare un concetto al di fuori della cerchia degli addetti ai lavori. Non sono mai stato appassionato particolarmente di gestione del rischio idrogeologico, ma devo ammettere che ascoltare idee ed esperienze messe insieme con l’obiettivo di capire come divulgarlo in maniera più ampia è sempre utile. Nel caso del rischio sismico, ho scoperto l’esistenza del servizio Sicuro+: un modo veloce per sapere il rischio sismico di un particolare comune. Anche se è stato rilasciato al pubblico verso la fine del 2019, al tavolo se ne era parlato. In ottica di prevenzione, sapere qual è il rischio della zona dove ci si trova è sicuramente un primo passo per aumentare la consapevolezza. Sono convinto che si tratti di un lavoro utile, da recuperare anche per altri temi simili.

  • A proposito di rischio idrogeologico e crisi climatica, nel corso delle discussioni del tavolo ho scoperto che esiste una strategia comunale per rispondere ai cambiamenti climatici. Mi ha colpito, specie se si pensa alla scala globale del fenomeno e a quanto possa impattare un’azione locale. È interessante che ci sia un’azione locale ben definita, che immagino sia collegata ad azioni più ad alto livello. Documentandomi un attimo, ho scoperto che c’è un problema di governance: dovrebbe esserci un piano a livello nazionale, che si integra e assicura coerenza nella gestione delle singole azioni a seconda dei livelli amministrativi coinvolti, ma, ad oggi, non è ancora stato rilasciato nella sua forma definitiva. Ci sono delle linee guida (datate gennaio 2020), ma il piano vero e proprio non è ancora stato rilasciato (ne ha scritto Emanuele Bompan in un approfondimento per Il Fatto Quotidiano). Tutto questo mi ricorda molto il delirio che abbiamo scoperto negli ultimi mesi attorno al piano pandemico nazionale, che era stato aggiornato l’ultima volta nel 2006 (e avrebbe dovuto esserlo).

  • Serve fare cultura. Ragionare sulla prevenzione implica scontrarsi con il tema culturale. Cultura del dato prima di tutto (per capire il livello del rischio sismico, per capire cosa significa davvero una probabilità, etc..). Ci sono informazioni e conoscenze che dovrebbero essere connaturate all’essere cittadini consapevoli. Serve capire quali sono le modalità migliori da usare: magari un percorso di formazione minimo alla cittadinanza, un servizio civile aumentato per gli adulti, un ripensamento dell’educazione civica che riparta dalla scuola e si sposti ben oltre la fine del percorso scolastico. È un tema complesso dalle mille sfaccettature, ma fondamentale.

  • C’è poca chiarezza negli attori e nei ruoli che ricoprono nella società, viviamo sul passato. È necessario un ripensamento dei corpi intermedi (che sono strutturati per il mondo del secolo scorso, non per quello attuale). Ci sono diverse sfide sul piatto, tra cui spicca come qualificare tutte quelle comunità informali che agiscono tramite le potenzialità di Internet e che hanno bisogno di diventare rilevanti. L’altra sfida è dare la giusta rilevanza a tutte quelle informazioni e a tutti quei dati che vengono creati grazie al lavoro di intelligenze collettive informali, che lavorano grazie alla Rete. Non è necessario che ci siano forme strutturate (come associazioni o altro), possono essere singoli cittadini intermediati attraverso la tecnologia e Internet a farsi sentire e a dare una mano. Vanno previste nuove forme di ingaggio e di coinvolgimento, il mondo è cambiato. Nel report finale dei lavori si parla di “mancanza di criteri di validazione dei dati crowdsourcing”, ma non si tratta solo di questo. Significa anche ridare un ruolo collaborativo al singolo cittadino o alla comunità nei confronti dell’istituzione e ripensare la modalità di partecipazione della cittadinanza, fino ad abilitare i livelli di collaborazione e di empowerment (sono i livelli più alti secondo la scala della partecipazione di IAP2).

  • Eccessiva frammentazione degli attori della società civile. Nel corso della discussione ho sentito diverse volte riecheggiare il tema della sicurezza delle scuole, ovviamente dal punto di vista sismico. A che punto sono i lavori per la loro messa in sicurezza? Come si può conoscere lo stato dell’edificio dove si mandano i propri figli per buona parte della settimana? Sono solo alcune delle domande a cui tutti cercano di dare una risposta, ognuno con le proprie modalità. È un ambito mi è particolarmente caro, visto che è stato oggetto di molte attività collegate alle prime inchieste di data journalism e di richiesta di Open Data nel corso degli ultimi dieci anni. È un tema sentito, ci sono molte iniziative attive su questo fronte, ma spesso non si conoscono e non riescono a coordinarsi tra loro.
    Questa frammentazione è un problema comune a tantissime iniziative che nascono dalla società civile, perché se ci fosse maggior contatto tra i progetti che stanno affrontando lo stesso ambito, l’impatto delle azioni che si possono mettere in campo sarebbe molto più alto.

L’attivismo digitale a servizio della collettività: un’introduzione al civic hacking per il Festival della Partecipazione 2020

Lo scorso 18 ottobre Erika ed io abbiamo partecipato al Festival della Partecipazione all’interno di un filone di interventi dedicati ad approfondire il civic hacking in emergenza (questo era il programma della giornata). Con 20 minuti a disposizione abbiamo scelto di dividerci in maniera diversa dal solito: io avrei presentato il civic hacking dal punto di vista generale, Erika avrebbe fatto un approfondimento sull’uso dei dati in emergenza, sfruttando esempi reali. Ho provato sulla mia pelle quanto sia sfidante divulgare un tema da addetti ai lavori in un tempo assai limitato (10 minuti). Trovate il video completo della sessione mattutina a questo link, se avete voglia di ascoltarlo (attenzione, la sessione dura 1h30min).

Screenshot del programma dal sito del Festival della Partecipazione

Il programma della giornata era diviso in due momenti: la mattina c’era il panel a cui abbiamo partecipato (quello delle 11.30), il pomeriggio c’è stato il momento del workshop, in cui rispondere in maniera aggregata a diverse domande guida, tra le quali: “quali strumenti, come coinvolgere comunità, attivisti e istituzioni, come richiedere, produrre e diffondere dati”? Noi non abbiamo partecipato al workshop, si può comunque recuperare tutta la discussione a questo link, se vi interessa.

Una veloce introduzione al civic hacking

Ecco quello che ho raccontato, una slide alla volta.

Cover della presentazione

Oggi Erika ed io vi daremo alcuni spunti per capire cosa diamine è il civic hacking, i suoi legami con quello che chiamiamo ‘attivismo’ e come tutto questo abbia a che fare con l’emergenza. Io mi concentrerò nel delineare i confini al perimetro più ampio, così ci capiamo meglio, mentre Erika si focalizzerà sul tema dei dati, anche raccontando alcune esperienze di civic hacking e civic tech sparse per il mondo.


Siamo nel contesto di un'emergenza, si rompono tutti gli equilibri esistenti

Emergenza, da dove parte tutto (la madre di molti problemi)

Siamo in un’emergenza. Ci possiamo far prendere dal panico o dallo sconforto, ma possiamo anche essere sopraffatti da un’altra emozione: l’esigenza di fare qualcosa, qualcosa che abbia senso, che dia una direzione, che ci faccia sentire utili. L’emergenza ci pone una sfida, ci obbliga ad uscire dalla nostra zona di comfort, perché rompe gli equilibri esistenti. L’emergenza è il contesto in cui vediamo delle questioni da risolvere, dove possiamo decidere di dare una mano. Tra tutti i problemi che un’emergenza porta alla luce, si tratta di capire quale scegliere , quale ci tocca di più.


Alcuni attivisti al computer

Attivismo (digitale)

Perché l’emergenza non ci blocca? Perché c’è un atteggiamento di base, chiamiamolo pure un modo di vedersi nel mondo, una sorta di cultura condivisa. Siamo attivisti (cos’è l’attivismo? Ne avevamo parlato anche in un numero della newsletter di qualche tempo fa). Vogliamo essere parte attiva di quello che accade attorno a noi, non vogliamo essere solo spettatori. Il digitale fa parte del nostro mondo ormai da diverso tempo, quindi è naturale parlare di attivismo digitale. Il civic hacking è una delle forme più recenti di quello che è l’attivismo digitale e possiamo pensarlo come ad un suo sotto-insieme.

Il civic hacking è l’attivismo che sfrutta le potenzialità del vivere nel Ventunesimo Secolo. Sfatiamo un mito:

  • il digitale non è qualcosa di virtuale, è una dimensione che ha un impatto reale sulla dimensione fisica che tutti conosciamo. È una dimensione immateriale della realtà, ma è al 100% reale. Dobbiamo essere sempre più chiari e precisi nel dichiararlo.

L’attivismo nasce dal basso e aggrega persone e comunità sensibili ad un tema ben preciso. Il digitale aumenta le possibilità a nostra disposizione, dando forza a comunità informali che possono coordinarsi senza una struttura formale. Il civic hacking è una delle massime espressioni di questa sinergia. Singoli e comunità che si auto-organizzano con gli strumenti messi a disposizione dal Ventunesimo Secolo per affrontare un problema concreto.

Tra l’altro, non è proprio una cosa dell’altro ieri: una delle prime citazioni del termine ‘civic hacking’ è del 2003, in Gran Bretagna. Sono passati quasi 20 anni ormai.


Hacking è un atteggiamento - una maschera da sub trasformata in ventilazione assistita

L’hacking è un atteggiamento

Se fino adesso ci siamo concentrati al contesto in cui si muove il civic hacking, ora capiamo davvero di cosa si tratta partendo dal concentrarci sulle due parole: ‘civic’ e ‘hacking’. Hacking, hacker. Termini che associamo a geni informatici che bucano sistemi e fanno grossi danni: questa associazione è uno dei più grandi errori che si possano fare. La realtà è ben diversa, prima di tutto perché un hacker non è tradizionalmente un criminale informatico (quello si chiama cracker). L’hacking è un atteggiamento, prima che un insieme di capacità. È l’attitudine a risolvere problemi uscendo dalla propria zona di confort senza dover chiedere il permesso a nessuno e mettendo in discussione qualsiasi cosa. È qualcosa che si fa cercando supporto nelle comunità di persone affini, condividendo quello che si sa e quello che si fa, per quanto sia incompleto o soltanto abbozzato.

Si tratta di un approccio culturale che trova radici nel mitico MIT di Boston e che è la base del modo di lavorare dei movimenti del software libero e dell’Open Source. L’attitudine hacker è una cornice culturale, non è soltanto roba da informatici.
Tutti possono essere degli hacker: anzi, tutti lo dovrebbero essere.

L’immagine di sfondo di questa slide è lo schema del progetto civico che ha adattato delle maschere da sub di Decathlon da 19€ per trasformarle in maschere adatte alla ventilazione respiratoria. È stato fatto grazie alla realizzazione di un connettore specifico, realizzato con stampanti 3D. L’intero progetto è stato condiviso in modalità open nel pieno della crisi in mancanza di dotazioni sanitarie. Ne avevamo parlato in un numero della newsletter lo scorso aprile, grazie al lavoro di Covid19italia.help.


Civico significa che è anche mio. La lapide di Kennedy

Civic(o): di tutti, anche mio – arrivato qui

Ora che il concetto di hacking dovrebbe essere più chiaro, passiamo alla parola ‘civic’, civico. Civico significa qualcosa che è a beneficio di tutta la città e di tutti i suoi cittadini, in altri termini se facciamo qualcosa di civico, vuol dire che stiamo facendo qualcosa per il bene della collettività. Ci stiamo impegnando a risolvere un problema che ci riguarda tutti. Significa rendersi conto che se è di tutti, vuol dire che è anche nostro, non che è di nessuno.
Cito un estratto da un numero della newsletter dove abbiamo approfondito questo concetto:

[…] la Treccani ci informa che civico significa “Che è proprio dei cittadini, in quanto appartengono a uno stato (cfr. civile)” oppure che si riferisce a qualcosa che è “Di città, comunale, municipale”. Sembra quasi la stessa cosa, no? Il dizionario etimologico però racconta un’altra cosa. La radice è complicata, ma “a parola vale residente, accasato, che ha stabile dimora in paese, in opposizione a straniero, che viene di fuori per tornarsene, al nomade che girovaga, all’incola o inquilinus abitante non fisso di un luogo non proprio”. Civico ha a che fare con le radici, con l’essere parte di un territorio.


Gli ingredienti del civic hacking

Gli ingredienti

Una delle definizioni di civic hacking che più ci piace è questa: fare civic hacking significa trovare soluzioni creative a problemi concreti utilizzando anche le tecnologie. È un fenomeno dinamico, che cambia pelle ed evolve nel corso degli anni. Studiandolo per diverso tempo, ci siamo resi conto che il modo migliore per spiegarne la natura è con una serie di ingredienti.


Ogni ricetta di civic hacking ha le sue dosi, non esiste una regola per tutti

Ogni iniziativa di civic hacking ha la sua ricetta, ogni iniziativa dosa in maniera diversa questi ingredienti. Attenzione: non esiste la ricetta perfetta, quella che si adatta a tutti i contesti e a tutti i problemi. Non c’è la pallottola d’argento. Gli ingredienti sono questi:

  1. (Open) DATA
  2. l’essere attivi
  3. le comunità informali
  4. le zone grigie
  5. i prototipi

La seconda parte della presentazione, la trovate in questo approfondimento di Erika.


L’immagine della cover del post è A cat on the rubble di Alessandro Giangiulio distribuita con licenza CC BY.